Periferie urbane: caratteri, geografie, politiche (dopo il Coronavirus)

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Gabriele Pasqui

Data:

20 Marzo 2020

Quali effetti lascerà la drammatica crisi del Coronavirus sulle periferie urbane delle città italiane? Quanto gli inevitabili impatti della pandemia sull’economia, sulla società, ma anche sulle culture e sugli immaginari segneranno il destino di coloro che abitano le aree più critiche delle nostre città? In che modo le politiche pubbliche dovranno farsi carico di questi effetti, e attraverso quali dispositivi potranno intervenire efficacemente?

Prima di provare a dare qualche risposta, del tutto tentativa data la grande incertezza nella quale versiamo e che non permette di cullarsi in certezze e di evocare ricette sicure, vorrei osservare che già ora gli effetti dell’epidemia hanno una flessione peculiare, e spesso ancor più drammatica, nelle nostre aree periferiche. Innanzitutto, perché nelle periferie urbane si concentra una quota rilevante della popolazione fragile, che ha perso un lavoro già precario e che rischia di trovarsi in condizioni di disoccupazione strutturale. Il lavoro precario e sommerso, quello meno tutelato, è per ovvie ragioni la prima vittima dell’attuale crisi, e la perdita di una occupazione, per quanto instabile, costituisce spesso per individui e famiglie un primo passaggio dell’attivazione di un circolo vizioso che spesso coinvolge in seguito la condizione abitativa. Senza lavoro e senza casa: ecco la condizione nella quale potrebbero trovarsi collocati molti nuclei familiari, ma anche molti singoli (si pensi ai giovani stranieri finora occupati nei comparti più bassi e meno tutelati dei servizi) tra qualche settimana o tra qualche mese.

L’altra dimensione nella quale è già oggi evidente la differenza tra aree più ricche e aree periferiche o marginali è quella della scuola. Il drastico passaggio alla didattica a distanza è meno facile in quelle scuole, soprattutto primarie e secondarie di primo grado, nelle quali il capitale sociale e culturale, ma anche le dotazioni tecnologiche minime, sono inferiori. Si pensi ai bambini e ragazzi stranieri da poco arrivati in Italia e che non parlano bene la nostra lingua o alle famiglie che non sono in grado di garantire una sufficiente copertura in termini di connettività per i limitati device posseduti; inoltre, le scuole nelle quali le dotazioni tecnologiche sono molto limitate subiranno un contraccolpo fortissimo, in termini di aumento dell’abbandono scolastico, difficoltà di recupero da parte di studenti che non sono in grado di seguire le attività in remoto, ulteriore ghettizzazione di plessi scolastici.

Infine, non possiamo dimenticare i rischi dal punto di vista della manutenzione ordinaria delle case, dei servizi pubblici e assistenziali, degli spazi collettivi, che rischiano fenomeni di vero abbandono e nei quali il degrado materiale facilmente lascia spazio all’impoverimento delle relazioni sociali.

Come affrontare questi problemi? La prima mossa è una rivisitazione della stessa nozione di periferia urbana, che sia in grado di identificare con precisione i luoghi e i contesti nei quali dovrà concentrarsi maggiormente l’azione pubblica. Non possiamo permetterci, data la necessità di risorse ingenti che l’uscita dalla crisi richiederà, di sprecare energie dove ce n’è meno bisogno.

Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di periferie? Come ha mostrato Agostino Petrillo (2018), la nozione di periferia, e con essa la delimitazione delle aree periferiche costituisce un complesso problema di ricerca. Da questo punto di vista, i recenti tentativi condotti nel nostro Paese per determinare le unità territoriali minime di indagine e per caratterizzare anche in senso statistico le forme territoriali del disagio socio-economico delle aree urbane permettono di evidenziare alcuni snodi problematici.

Mi limito qui a richiamare sinteticamente due lavori di grande importanza.  Il Dipartimento per le politiche di sviluppo ha costruito delle “mappe della povertà”, individuando in ciascuna delle 14 aree metropolitane riconosciute dal legislatore sub/aree o quartieri di concentrazione del disagio, al fine di classificarne e tipizzarne le caratteristiche e di fornire uno strumento operativo a supporto delle politiche urbane e della progettazione locale (DPS, 2017).

ISTAT, sulla base di una sollecitazione emersa dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, ha prodotto e calcolato per i comuni capoluogo delle 14 città metropolitane un indicatore di “vulnerabilità sociale e materiale”, costruito attraverso la sintesi di indicatori diversi e orientato a produrre una rappresentazione unitaria e georeferenziata delle diseguaglianze in ambito urbano (ISTAT, 2017).

Si tratta di due tentativi di grande importanza, in quanto permettono di ragionare sulla base di dati accurati e confrontabili e di definire in modo preciso le diverse variabili in gioco. Inoltre, entrambi i lavori assumono alcuni principi guida, che fanno emergere anche una teoria implicita della natura delle disuguaglianze spazialmente concentrate nelle aree urbane. In primo luogo, la povertà monetaria (assoluta o relativa) viene strettamente connessa alle povertà abitative. In secondo luogo, la condizione di perifericità viene intesa come un fenomeno multidimensionale, nel quale giocano un ruolo la vulnerabilità sociale, connessa alla precarietà della condizione lavorativa; il livello e la qualità della scolarizzazione e più in generale della formazione; l’accessibilità dei servizi e i potenziali di mobilità. Infine, il degrado edilizio e le connesse fragilità nella condizione abitativa costituiscono una buona approssimazione delle variabili ambientali che connotano i quartieri e le aree a più alta deprivazione.

Questi approcci, estremamente utili, devono tuttavia essere integrati da uno sguardo qualitativo e più ravvicinato, che tenga in considerazione la dimensione processuale delle dinamiche in atto nelle aree periferiche. Le città italiane, nel corso dei decenni, hanno più volte ridisegnato la geografia delle proprie periferie, in relazione a processi demografici, sociali e territoriali che devono essere analizzati approfonditamente. Si tratta cioè di rifinire la “grana” spaziale delle condizioni di disagio e di conseguenza delle diseguaglianze. Nel tempo, molte aree periferiche sono state “inglobate” nella città, e talora sono state soggette a dinamiche importanti di miglioramento. D’altra parte, vi sono quartieri, ma anche porzioni all’interno di un singolo quartiere, nelle quali si sono generate condizioni di causazione cumulativa che hanno condotto a fenomeni di filtering down. Inoltre, i luoghi di maggiore disagio oggi spesso sono prossimi al centro cittadino, concentrati in “nicchie territoriali” (uno stabile, alcune vie, un antico insediamento, un’area prossima alla stazione ferroviaria, …) che spesso sono difficilmente rilevabili a livello statistico e che non sono comunque riconducibili alla tradizionale geografia dei quartieri. Da questa prospettiva è necessario disaccoppiare, anche nell’immaginario, periferie urbane e quartieri di edilizia residenziale pubblica. Oggi alcune delle situazioni più sfidanti riguardano quartieri o sezioni urbane nelle quali prevale l’edilizia privata, dove la sostituzione della popolazione residente e la crisi del mercato urbano hanno generato condizioni abitative e di vulnerabilità sociale spesso esplosive.

In secondo luogo, e proprio per essere in grado di cogliere luoghi e situazioni di maggiore disagio, è indispensabile ragionare sulla fortissima connessione tra mutamento demografico e condizione periferica. Le periferie urbane sono i luoghi nei quali si concentrato maggiormente i tre processi connotanti le dinamiche demografiche italiane: l’invecchiamento della popolazione autoctona, la presenza rilevante di popolazione immigrata (regolare e non), la disarticolazione delle famiglie. Le dinamiche demografiche nelle aree periferiche sono troppo importanti per esser ignorate: è proprio la presenza congiunta di una popolazione italiana invecchiata, di una popolazione straniera giovane e precaria e di famiglie per nulla tradizionali a rendere più difficili le condizioni di coesione sociale e ad aumentare la percezione di insicurezza.

Tale percezione è un tema fondamentale, anche nella prospettiva della costruzione di politiche, progetti e programmi che siano in grado di ridare fiducia agli abitanti delle aree più degradate. Sempre più spesso il racconto delle periferie coincide con la narrazione dell’insicurezza, a sua volta radicata dentro i processi demografici ed economico-sociali, soprattutto in termini di precarizzazione del lavoro. Investire sulla dimensione della sicurezza, prima di tutto sociale, è dunque essenziale.

Infine, non può essere sottaciuta la rilevanza della dimensione narrativa e simbolica dei processi in base ai quali si determinano condizioni di stigmatizzazione e auto-stigmatizzazione delle periferie. Si comprende poco delle periferie, e del nesso tra questi spazi e la concentrazione delle diseguaglianze, se non si traguarda lo sguardo anche alle narrazioni, alle storie, al modo in cui le immagini si sedimentano nel tempo. Le periferie sono spesso luoghi che gli abitanti percepiscono come un destino ineluttabile, magari anche come ambiti di espressione di una profonda alterità sociale e culturale. Questa percezione “destinale” dell’abitare “in periferia” costituisce una trappola talvolta più insidiosa di quella della povertà monetaria o abitativa.

In quali direzioni dovrebbero dunque muoversi le politiche pubbliche per contrastare gli effetti dell’epidemia nelle periferie urbane? Innanzitutto, attraverso la capacità di riconoscere con precisione le geografie del disagio e la natura multidimensionale dei problemi.

In secondo luogo, seguendo ad esempio le indicazioni offerte dall’Associazione Urban@it – Centro nazionale di studi sulle politiche urbane, assumendo un approccio che sia capace di mettere al lavoro le risorse locali, secondo un approccio integrato e place-based, e di veicolare efficacemente risorse e strumenti di politiche regionali, nazionali ed europee (Urban@it, 2020).

Infine, ponendo al centro dell’attenzione alcune priorità. La prima è il consolidamento, l’irrobustimento e l’infrastrutturazione della rete dei servizi fondamentali nelle periferie urbane, partendo dalle urgenze e dai bisogni ineludibili delle persone e dalla necessità di aumentare la qualità della loro vita. Presidi socio-sanitari, istruzione e formazione, casa (anche attraverso la sospensione dell’esecutività degli sfratti), accesso semplice e a basso costo alle reti telematiche, mobilità pubblica e sostenibile, protezione civile e cura del territorio devono essere posti al centro di azioni capaci anche di generare nuova domanda di lavoro, soprattutto per le fasce che più risentiranno degli effetti della pandemia.

La seconda è l’attivazione di un programma di manutenzione straordinaria delle periferie urbane, promuovendo la piena connettività e la messa in sicurezza di queste aree, spesso le più soggette ai rischi territoriali, attraverso un piano di “piccole opere” che avrebbero anche il pregio di essere rapidamente attivabili e di implicare processi produttivi ad alta intensità di lavoro, la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato, in particolare se legata all’offerta di case in affitto concordato o sociale.

La terza è l’attivazione di progetti territoriali e sociali che facciano leva sulle infrastrutture pubbliche esistenti, a partire dalle scuole, che sono palestre straordinarie di innovazione sociale, di sperimentazione di una agency basata sulla gratuità, nelle quali la mobilitazione volontaria e l’impegno sociale trovano un ambiente privilegiato di manifestazione. Per muoversi in queste direzioni, tra loro connesse, è necessario che investimenti e politiche per le scuole e, in particolare, per il patrimonio dell’edilizia scolastica assumano i caratteri di progetti integrati di rigenerazione e sviluppo. Queste iniziative assumerebbero il ruolo che hanno avuto gli interventi integrati place-based nel contesto delle politiche di coesione. In analogia con tali politiche, si potrebbero immaginare dei “Contratti di scuola”, sull’esempio dei “Contratti di quartiere”, favorendo l’accesso al finanziamento anche da parte di plessi scolastici che versano in situazioni di deprivazione materiale e tecnologica e di scarsa manutenzione o che sono collocate in contesti urbani particolarmente disagiati.

Inutile dire che, da sole, queste iniziative non sono sufficienti. Politiche per la casa in affitto, politiche attive del lavoro, politiche dei redditi devono necessariamente essere disegnate e implementate ad una scala più ampia. Tuttavia, è fondamentale che anche le politiche europee, nazionali e regionali (ad esempio, con la ripresa e la rivisitazione di uno strumento come il PON Metro, Programma Operativo Nazionale “Città Metropolitane 2014 – 2020”) siano in grado di riconoscere le specificità dei contesti periferici urbani, favorendo iniziative dal basso in una prospettiva di sburocratizzazione e di semplificazione amministrativa.

Non sarà facile; ma solo a queste condizioni potremo almeno ridurre i rischi che il conto della pandemia sia pagato dai più poveri e dai più deboli, che spesso, nelle aree urbane, si concentrano proprio nelle aree periferiche.

 

Riferimenti bibliografici
DPS (2017), Poverty Maps. Analisi territoriale del disagio socio-economico delle aree urbane, Roma.
ISTAT (2017), Materiali per la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, Roma.
Petrillo A. (2018), La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, Franco Angeli, Milano.
Urban@it (2020) V Rapporto sulle città italiane. Politiche urbane per le periferie, a cura di G. Laino, il Mulino, Bologna.