Molte domande e il desiderio di ripartire con uno sguardo diverso. Una riflessione di Costanzo Ranci

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Costanzo Ranci

Data:

3 Aprile 2020

Riprendo le osservazioni che Gabriele ci ha mandato alcuni giorni fa per sviluppare due punti di riflessione che si stanno formando nella mia mente in queste giornate. Entrambi riprendono aspetti già toccati da Gabriele. Andrò subito al sodo senza troppe dispersioni letterarie.

Solo una breve premessa. La pandemia ha dato a me, ma penso a molti di noi, una grande scossa. D’ora in poi le nostre riflessioni dovranno cambiare, forse in parte sono già cambiate. Ma al tempo stesso lo stress del dolore, della paura e del distanziamento umano e sociale ci può portare a ripercorrere i sentieri intellettuali che siamo soliti percorrere. È comprensibile, abbiamo tutti bisogno di sentirci rassicurati. Ma è anche pericoloso. La crisi ha trovato l’intero paese, direi il mondo intero, noi stessi, impreparati. Non possiamo non farci interrogare da questo fatto. Dove eravamo? In che cosa eravamo impegnati pensando che fosse davvero importante?

A me interessano soprattutto le sfide pubbliche e quindi mi allineo alla prospettiva tratteggiata da Gabriele. Personalmente vedo, per il momento ma i pensieri si affollano e potrebbero ancora cambiare, due questioni che mi interrogano come scienziato sociale, e che potrebbero interrogare anche urbanisti, architetti, gli assegnisti dell’eccellenza, e via dicendo.

La prima questione riguarda la politica pubblica che è stata maggiormente travolta dal virus: la politica sanitaria. Tutti abbiamo negli occhi e nella mente le scene degli ospedali e delle terapie intensive. Storie allucinanti e di grande enorme sofferenza. Ma c’è un aspetto che ci tocca come esperti di territorio e di spazio, sia urbano che non urbano. Il sistema sanitario era stato pensato e progettato anche come un grande sistema territoriale. Gradualmente si è trasformato in una serie di punti ad elevata specializzazione. La medicina territoriale, quella nei luoghi di lavoro e di studio, quella dei medici di base, quella dei servizi territoriali, resiste ancora nel nostro paese (non sempre altrove), ma è confinata in un ruolo sempre più marginale. I tagli finanziari al sistema sanitario hanno colpito sia le strutture ospedaliere che le strutture territoriali, inclusi i medici di base. Le seconde hanno tuttavia subìto la contrazione maggiore.

La pandemia ha forse rimesso al centro questa idea e pratica di sanità territoriale. Ha dimostrato quanto grave sia la sua assenza e quanto potente e necessaria sarebbe la sua presenza, quando riesce ad esserci. È probabile che le regioni che hanno spinto molto sulla ospedalizzazione, la specializzazione e l’apertura al privato (come la Lombardia) abbiano pagato un prezzo più alto. Altre forse hanno tenuto meglio. Uno dei punti più delicati riguarda proprio il rapporto tra sanità ospedaliera e sanità territoriale. Sarà materia su cui indagare nei prossimi mesi. La riapertura, quando ci sarà, dovrà avvenire nel territorio. Lì si giocherà una partita decisiva, per trovare un punto di equilibrio nuovo tra rischi da correre da un lato, e protezione e prevenzione dall’altro. In questi giorni mi sono chiesto spesso dove fossi negli ultimi anni, e come mai non abbia indagato più a fondo questa ritirata dal territorio della sanità pubblica. Penso che dopo il coronavirus, ma anche durante il coronavirus, dovrò/dovremmo puntare il riflettore su questo aspetto decisivo, offrire analisi e proporre soluzioni che ricollochino la sanità nella sua identità originale di sistema di igiene e salute pubblica.

Il secondo aspetto riguarda le vittime principali, sacrificali direi, del virus: gli anziani, e tra questi gli anziani più anziani, i più fragili. Il loro confinamento negli spazi dimenticati delle case di riposo, o in quelli delle loro abitazioni frequentate quotidianamente dai lavoratori stranieri che li accudiscono, non li ha salvati più di tanto. Ovvero, ne ha salvati tantissimi, ma molti no. La fragilità di queste persone si incontra talvolta con la fragilità di territori che non sono sicuramente “friendly” con loro (come questa parola ha ora perso di senso…), ma che neanche costituiscono più una rete finale di supporto. Alcuni testimoni mi hanno raccontato che tra le prime vittime del virus ci sono stati tanti anziani che ancora vivevano attivamente la comunità nei territori in cui vivevano: quei territori di mezzo, sospesi tra metropoli e paese, che per lunghe settimane  sono stati terreno di caccia del virus. Quanti di noi hanno seguito l’evolversi di queste comunità, la loro resilienza? Quanto di noi conoscono che aspetto ha assunto la città, o l’urbano se preferite, agli occhi dei nostri anziani, che peraltro rappresentano ormai il 35% della popolazione complessiva? E ancora: come non farsi interrogare dalle centinaia di morti nelle case di riposo, luoghi dimenticati da tutti, oggetto di disinvestimenti pubblici da diversi decenni? Quali alternative sono date oggi a chi non può più, oppure non vuole, restare da sola/o in casa con la badante? E quale situazione sperimentano i lavoratori della cura, dentro le abitazioni e fuori di esse? Quali spazi per l’abitare esistono, e come si può studiare e progettare per migliorarli, renderli magari anche più sicuri senza far perdere le possibilità residue di autonomia e di socialità? Quali tecnologie, oggi più che mai necessarie, sono applicabili e integrabili negli spazi della vita quotidiana,  ma anche negli spazi della cura e dell’assistenza? Infine, dove ero io? Dove eravamo noi? Che cosa stavamo osservando? Perché non ci siamo accorti sino in fondo dell’emergenza sociale che questa problematica ci pone? Perché mi sveglio, ci svegliamo, solo ora, davanti ad una strage senza precedenti?

Non ho risposte a queste domande. Solo un grande desiderio di ripartire. Con uno sguardo diverso però.