Panem et domus al tempo del Covid-19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Imma Forino

Data:

6 Aprile 2020

Farina e lievito di birra sono fra i beni di prima necessità a sparire dagli scaffali dei supermercati. — L’industria molitoria in Sicilia non solo non si ferma, ma implementa la sua produzione trasformandola a ciclo continuo ovvero senza interruzioni. — I fattorini del delivery food lamentano i pericoli sanitari in cui incorre la categoria professionale, a rischio non solo per la precarietà dell’impegno ma, ora, anche per i possibili contagi. In tempi di virus globale, le cronache recenti testimoniano un cambiamento epocale nelle abitudini di vita degli italiani, e non solo, concretizzatosi in un lasso di tempo brevissimo.

Dopo più di una decade in cui le esistenze  erano improntate ai diktat della mobilità e del cambiamento, per ragioni professionali o di studio, ad assetti domestici temporanei o per lo meno vissuti come tali, a pasti approntati o consumati in fretta o, viceversa, sostituiti da preparazioni pre-pronte o consegnate a domicilio o, infine (e per chi può permetterselo), centellinati in ristoranti gourmet, i “nuovi nomadi” restano a casa e cucinano o imparano a farlo. Pane, focacce, torte: sono gli impasti a essere preferiti, non solo perché inventivi ma perché densi di una manualità lenta e pensosa. Ritorno al gesto, laddove il pensiero si perde nella paura.

Il telelavoro ‒ ben diverso dallo smart working, che implica riunioni frequenti e di persona ‒ riempie il resto delle giornate, mentre i figli seguono le lezioni a distanza o, appena possono, si connettono alla playstation collegandosi in remoto con gli amici e urlando come forsennati. Ore e ore trascorse davanti alla televisione o allo schermo del pc o dello smartphone riempiono occhi ed orecchie di aggiornamenti funesti, mentre “fuori” le autoambulanze sfrecciano dilaniando il silenzio della “città vuota” (It’s a Lonely Town di Gene McDaniels diventa nel testo di Giuseppe Cassia e nell’interpretazione di Mina struggente rimpianto in una affollata metropoli).      

La casa è diventata l’epicentro di ciascuno, roccaforte da cui non allontanarsi, baluardo da opporre al contagio, alla malattia, alla morte. Come in altri periodi di crisi ‒ quella petrolifera degli anni Settanta, il tempo delle stragi del medesimo decennio, il crollo economico del 2008, gli attentati terroristici del nuovo secolo ‒ si assiste al riflusso nel privato, oggi più che mai obbligatorio se si vuole avere scampo. Abbandonati per viaggi intorno al mondo, frequenti giri fuori porta o ameni fine settimana, i luoghi domestici tornano a essere le quinte del vivere quotidiano.  E in essi la cucina è rinnovata ribalta, e non più retroscena, perché pane e abitazione sono inestricabilmente connessi. Sitòfagoi [mangiatori di pane] erano gli eroi omerici, distinti così dai famelici barbari per indicarne la civiltà ‒ fare il pane richiede esperienza e competenza ‒ incentrata intorno all’òikos, la casa o unità-base della società, all’origine della democrazia occidentale.

In una contemporaneità, che nella sua eccitante fuga in avanti ha accantonato la dimensione culturale della domesticità, vale la pena provare a riflettere sul senso di questo ritorno a casa, per quanto forzato esso sia, e su quale prospettive aprirà, “dopo” il tempo del Covid-19 .