I nodi che vengono al pettine con il coronavirus. Un’occasione di innovazione?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Giuliana Costa

Data:

3 Marzo 2020

Il timore oggi è che il sistema sanitario italiano “non regga”: che fare allora? Come dall’emergenza covid-19 si possa imparare per migliorare la sanità

Lavorano ormai sul filo del rasoio gli ospedali che si collocano nell’epicentro dello sviluppo dei contagi, con turni di lavoro definiti ormai massacranti, medici ed infermieri che non riescono a prendersi pause e ore di riposo, reparti pieni e posti in terapia intensiva che incominciano a scarseggiare. Con l’avanzare del coronavirus vengono al pettine diversi nodi del sistema sanitario nazionale e di quelli regionali, frutto di scelte e politiche che in questo momento si dimostrano se non errate, quanto meno miopi…

 

La diffusione del covid-19 sta mettendo alle strette il sistema sanitario italiano, considerato uno dei migliori al mondo. Secondo gli ultimi dati, aggiornati dalla Protezione Civile alle 18 di ieri 2 marzo, il numero delle persone contagiate è arrivato a 1835, di cui 927 in isolamento domiciliare, 742 ricoverati con sintomi e 166 in terapia intensiva. Sono guarite 149 persone e ne sono decedute 52. Oggi i contati hanno superato i 2000. Il timore oggi è che il sistema sanitario “non regga”. In Lombardia, regione che ospita il maggior numero di contagiati del Paese (1077, quasi il 60% del totale) e che ospita il primo focolaio del virus (la “zona rossa” che comprende i comuni di Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini), oltre ad aver adottato già da oltre 10 giorni misure draconiane per fermare il contagio (chiusura scuole, università, teatri, cinema, impianti sportivi, utilizzo di forme di smart-working e telelavoro), in queste ore si è messa in moto una macchina organizzativa tesa al reperimento di risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza. Alla conta dei posti letto a disposizione negli ospedali pubblici da destinare a persone che possano aver bisogno di essere ricoverate, si sommano proposte in grado di aumentare gli operatori sanitari al lavoro. Lavorano ormai sul filo del rasoio gli ospedali che si collocano nell’epicentro dello sviluppo dei contagi, con turni di lavoro definiti ormai massacranti, medici ed infermieri che non riescono a prendersi pause e ore di riposo, reparti pieni e posti in terapia intensiva che incominciano a scarseggiare. E allora, ci si domanda come fare fronte alla necessità di aumentare i medici e gli infermieri in servizio così come di creare dei posti letto aggiuntivi, in particolare quelli ad alta protezione.

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La prospettiva di un aumento considerevole del numero di infettati con bisogni di assistenza sanitaria spinge la Regione ad adottare misure straordinarie. Fioccano idee e con loro, i partiti del sì e del no ma, in ogni caso, con l’avanzare del coronavirus vengono al pettine diversi nodi del sistema sanitario nazionale e di quelli regionali, frutto di scelte e politiche che in questo momento si dimostrano se non errate, quanto meno miopi. Se da un lato l’impianto sanitario in essere funziona e risponde efficacemente all’epidemia, vi sono tanti elementi che fanno dell’emergenza coronavirus un’occasione unica per ripensare e rilanciare le politiche sanitarie del nostro Paese. Dal covid-19 possiamo imparare qualcosa. Lo ha sostenuto anche David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, una settimana fa, in occasione della presentazione del rapporto Asvis a Roma: “Credo che questa emergenza in Italia valga una grande riflessione sul sistema sanitario e sull’organizzazione regionale del Sistema Sanitario Nazionale. Penso che questa sia un’occasione per ricominciare a discuterne perchè penso che spezzettare la sanità pubblica in 20 regioni, in venti competenze esclusive, sia probabilmente non adeguato ad affrontare emergenze di questo tipo”. Lo sostengono in tanti -medici, commentatori, giornalisti, policy maker – con toni che sfiorano talvolta il lirismo patriottico con dichiarazioni quali “l’emergenza coronavirus è uno stimolo vero per far rinascere il nostro sistema sanitario” (parole del sottosegretario al Ministero della Salute PierPaolo Sileri intervenuto ieri sera nel programma “Quarta Repubblica” andato in onda ieri sera su Rete 4).

Provo a sintetizzare le questioni e i fatti più spinosi che oggi, come nodi che vengono al pettine, costituiscono gli elementi su cui fondare occasioni di apprendimento e di ripensamento delle nostre politiche sanitarie, intese in senso lato:

1) Il difficile accesso alla formazione in campo sanitario: è da più di 10 anni che l’accesso alle facoltà di medicina è regolato da un sistema a numero programmato, istituito dalla legge 294 del 2 agosto 1999. Tale meccanismo è stato introdotto per razionalizzare le risorse esistenti destinate alla formazione dei futuri medici (aule, docenti, laboratori, occasioni di didattica negli ospedali) e per selezionare i “migliori” studenti, chiamati ad impegnarsi in un percorso di studi lungo e difficile. Nella tornata di settembre 2019 i posti disponibili erano 11.568 a fronte di 68.600 aspiranti candidati, in un rapporto 6 a 1 quindi. Questo meccanismo ha, negli anni, dato luogo a innumerevoli critiche, proteste e ricorsi collegati non soltanto alla farraginosità dei processi amministrativi quanto al fatto che in Italia mancano medici e il numero chiuso non aiuta certo a colmare questo gap. Ancora, mancano risorse per le scuole di specializzazione, una volta laureati in medicina scarseggiano anche le borse per continuare il proprio percorso formativo; si stima infatti che l’anno scorso siano circa 15.000 i giovani che si sono trovati nell’impossibilità di proseguire nello studio.  Queste criticità sono oggetto di una proposta di legge del Movimento 5 Stelle – relatore Manuel Tuzi- già depositata in commissione Cultura alla Camera in cui si modificano i meccanismi di selezione in itinere: l’esame non più posto all’accesso ma all’inizio del secondo anno, una sorta di prova di verifica unica, valida per i corsi di laurea in Farmacia, Odontoiatria, Chimica e tecniche farmaceutiche, Scienze biologiche e Biotecnologie. La proposta prevede anche l’istituzione del finanziamento di borse di specializzazione attraverso il meccanismo dell’8 per 1000 per superare l’annosa questione della mancanza di risorse economiche dedicate. La discussione della proposta di legge avrebbe dovuto iniziare questo mese, marzo 2020. In questi giorni, gravidi di paure relative all’aumento del numero di persone che necessitano di aiuto medico, uno dei temi più dibattuti sui giornali, programmi radiofonici e televisivi è proprio quello relativo alla necessità di aumentare il sistema complessivo della formazione in campo medico e di farlo in tempi relativamente rapidi e non in forma graduale come indicato dalla proposta di legge su menzionata. Torna dunque con rinnovata forza la richiesta di investire di più sulla formazione dei futuri medici e infermieri aumentandone la dotazioni di risorse infrastrutturali ed economiche.

2) La carenza di personale medico ed infermieristico: negli ultimi giorni si susseguono descrizioni epiche di quanto sta accadendo negli ospedali che servono la zona rossa (in particolare quelli di Lodi e Cremona), dove medici e infermieri vengono descritti come “eroi in prima linea contro l’emergenza coronavirus”. Lo stato di emergenza da coronavirus non fa che rendere ancora più palese l’endemica mancanza di personale sanitario che caratterizza il nostro Paese. Si stima che nel 2025 mancheranno all’appello almeno 16.000 medici. In Italia non solo si formano pochi medici ma se ne assumono ancora di meno; i pochi concorsi spesso vanno addirittura deserti. Ora sono necessarie delle risposte rapide per reperire e mettere al lavoro medici e infermieri. Le soluzioni messe in campo, benché problematiche e di non facile attuazione, si moltiplicano. In primo luogo, è dell’altro ieri l’annuncio di Giulio Gallera, assessore al welfare della Regione Lombardia, di voler richiamare in ruolo i medici pensionati i quali, a loro volta, hanno reagito con entusiasmo a tale appello. Di fronte a questa evenienza, si sono fatte sentire voci critiche che esprimono idee molto diverse circa come superare l’impasse. Maria Rita Gismondo, direttore del laboratorio di Virologia dell’ospedale Sacco di Milano, ha suggerito invece di puntare sui giovani laureati, già formati e meno a rischio rispetto ai colleghi in tarda età pur se non dotati di specializzazione. Gli specializzandi sono già all’opera. Ieri, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha proposto l’assunzione di oltre 100 infermieri nella regione e l’anticipo delle sedute di laurea per permettere l’ingresso nel Sistema sanitario nazionale di nuove leve. Ancora, sono stati banditi concorsi lampo per infermieri da inserire negli ospedali “di frontiera” con contratti a tempo determinato. Un ultimo vertice della strategia di reperimento di personale medico riguarda la richiesta di aiuto alle strutture sanitarie private in Lombardia alle quali si è chiesto di rinunciare agli interventi programmati in modo da mettere a disposizione i propri professionisti, in particolare anestesisti e medici in grado di accompagnare i malati in terapia intensiva.

3) La scarsità di risorse e i sistemi di governance della sanità: secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe, think thank di politica sanitaria, nel periodo 2010-2019 sono stati sottratti 37 miliardi di euro al Servizio Sanitario Nazionale, impoverito da tutti i governi che si sono succeduti. Il taglio di reparti (oltre 700 negli ultimi 10 anni) e posti letto si fa sentire anche nella ricca Lombardia, regione che ha la maggior dotazione di posti letto ospedalieri di tutto in Paese. Di fronte alla diffusione del virus e del necessario ricorso a terapie mediche in regime di ricovero, mostra anch’essa qualche fragilità. Ieri mattina si segnalavano la presenza di circa soli 10 posti letto in terapia intensiva liberi entro il territorio regionale e la necessità di chiedere aiuto ad altre regioni per l’invio di malati che ne avessero bisogno. Questa emergenza sta mettendo in discussione le prerogative di autonomia differenziata che le regioni del nord, inclusa la Lombardia, hanno portato avanti negli ultimi anni. Ci si rende conto dell’importanza di avere un sistema sanitario coeso, per quanto articolato, come prevede l’impianto costituzionale, a livello regionale. Un’altra questione che in questi giorni viene molto dibattuta in Lombardia è il rapporto con la sanità privata, chiamata a fare la sua parte nel mettere a disposizione risorse per il fronteggiamento dell’allarme sanitario. E’ di ieri la notizia che la Regione ha chiesto alle strutture sanitarie private convenzionate (che fanno parte del sistema sanitario lombardo prestando servizi finanziati dal pubblico) di sospendere, come illustrato sopra, gli interventi programmati e non urgenti in modo da dirottare risorse verso l’emergenza virus. Durante un incontro tra i vertici regionali e i rappresentanti di Aiop (Associazione italiana ospedalità privata), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Assolombarda è stato stilato un piano secondo cui gli ospedali privati metteranno a disposizione posti letto, “prestando” i loro medici al sistema pubblico, soprattutto, ma non solo, per aiutare i colleghi delle zone dove ci sono più contagi. In un sistema come quello lombardo che ha fatto del rapporto stretto tra sanità pubblica e sanità privata (con l’ingente finanziamento di quest’ultima a valere su fondi pubblici), la questione ora è quella di capire se e quanto i privati possano costituire davvero una risorsa cui attingere di fronte all’emergenza. Si giocano qui anni di tentate innovazioni di sistema e di trasformazioni dell’assetto della sanità lombarda. Per far fronte alla diffusione del virus la Regione, assieme alla Protezione Civile, ha anche mobilitato gli ospedali militari. Nelle prossime ore sarà utilizzato l’ospedale militare di Baggio, a Milano, pronto per accogliere 50 pazienti che saranno assistiti da medici militari oltre che da personale sanitario specializzato distaccato da reparti di infettivologia.

Dunque: la necessità di affrontare l’emergenza sanitaria data dalla diffusione del covid-19 sta obbligando la classe politica e intere categorie professionali a scontrarsi con le strozzature di cui ho dato conto sopra e con tante altre che riguardano aspetti organizzativi del sistema sanitario. Per quanto si stia lavorando alacremente (ed è assolutamente doveroso darne evidenza), per quanto si sia obbligati a concentrare sforzi sulle questioni di rilevanza sanitaria più urgente, credo che questo stato di eccezione costituisca una buona base di partenza per avviare dei processi di policy innovation. Le proposte che si stanno moltiplicando di ora in ora come misure tampone possono diventare inneschi virtuosi in grado di avviare dei cambiamenti in grado di sanare le carenze sopra evidenziate o restare invece lettera morta. Ora pensiamo al contagio ma, a breve, credo dovremmo capire come capitalizzare gli insegnamenti dati da questo piccolo esserino, capire come la sua diffusione possa informare le politiche del futuro.

Giuliana Costa- Professore Associato di Sociologia al Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani

 

L’articolo è stato pubblicato il 3 marzo 2020 dal sito La voce di New York
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