Covid-19: è necessario elaborare politiche differenziate nei diversi territori e guardare diversamente al Sud Italia

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Alessandro Coppola, Francesco Curci, Arturo Lanzani

Data:

16 Aprile 2020

La crisi epidemica nella quale siamo immersi ha molto a che fare con le geografie del Paese, o più precisamente con la scala alla quale si costruiscono le geografie dell’azione pubblica. In queste lunghe settimane di emergenza l’orientamento dello Stato si è dimostrato, da questo punto di vista, ondivago. La crisi è stata prima localizzata, poi nazionalizzata, poi ancora rilocalizzata sebbene in diversa forma. I difficili rapporti fra i vari livelli di governo – e la loro politicizzazione, come nel caso dello scontro permanente fra Lombardia e Governo nazionale – hanno condotto a gestioni non ottimali di problemi che avevano bisogno di essere identificati, per l’appunto, alla giusta scala.

In una prima fase, il Governo ha mostrato un approccio molto attento alla variabilità territoriale del fenomeno, con l’individuazione delle prime zone di contenimento che ricomprendevano un numero limitatissimo di comuni. Queste delimitazioni hanno mostrato, stando agli esperti, grande efficacia mentre la loro mancata istituzione altrove – come nel caso della Bergamasca – ha determinato effetti catastrofici. Laddove vi è stata convergenza fra i diversi livelli di governo, o più precisamente dove c’è stata una coerente “posizione territoriale” che ha spinto lo Stato ad agire, è stata individuata la geografia più adatta a contenere l’epidemia e a proteggere la salute. Dove invece – anche sotto la potente pressione di interessi imprenditoriali – questa ponderatezza geografica dell’azione pubblica è stata elusa, gli esiti sono stati problematici.

Successivamente, e per brevissimo tempo, si è profilata una politica articolata in tre zone con un utile dettaglio a livello provinciale (ricordiamo che ad esempio nelle Marche le criticità si sono concentrate nella sola Provincia di Pesaro e Urbino). Un approccio, questo, superato rapidamente con l’estensione delle stringenti misure di distanziamento sociale a tutto il territorio nazionale – l’obbligo di rimanere in casa, di non frequentare spazi pubblici ancorché isolati, e soprattutto la chiusura di molte attività e aziende – lasciando di fatto alle regioni alcune possibilità di modulazione di questi indirizzi. Alla base di tale scelta la necessità di impedire il dilagare dell’epidemia in altre regioni. Particolare preoccupazione ha destato il rischio di una crescita massiccia dei contagi nelle regioni del Centro-Sud dove, come è noto, i sistemi sanitari presentato maggiori criticità. Se tali ragioni erano del tutto evidenti e comprensibili all’inizio dell’escalation, col progressivo avanzare della crisi la persistenza di restrizioni generalizzate appare sempre meno opportuna. A oltre un mese dal decreto che ha drasticamente ridotto la mobilità interna al territorio italiano siamo di fronte a un Paese che funziona in larga parte per aree non comunicanti e con livelli di rischio sanitario molto differenziato, circostanza che forse giustificherebbe politiche altrettanto differenziate.

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Discorso simile può essere fatto riguardo la regolazione dei settori produttivi, ovvero ragionando sul senso della loro ripartenza su base territoriale invece che per categorie economiche. Tale prospettiva però si scontra con quanto abbiamo osservato nelle ultime settimane. Infatti, sebbene il principale oggetto del contendere fosse il destino dell’industria del Nord e in particolare di quella lombarda, il Governo ha preferito “nazionalizzare” e quindi “settorializzare” la gestione del problema. Circostanza che è forse dipesa dal bisogno di dare risposte immediate all’opinione pubblica, dal timore di uno scontro frontale con gli interessi imprenditoriali e dalla assoluta genericità delle posizioni regionali. Tuttavia, così facendo, si è intervenuti sulla base di categorie difficili da leggere sul territorio, lasciando ai prefetti gran parte del potere effettivo – attraverso il potere di deroga – secondo un meccanismo invalso di genericità dei provvedimenti legislativi e discrezionalità nella loro applicazione. Con il paradosso che in Lombardia, dove si concentra il 53% dei deceduti, è attiva – come diverse fonti sembrano confermare – anche attraverso il dispositivo delle autocertificazioni, una percentuale di imprese maggiore di quelle di molte regioni del Mezzogiorno che presentano i valori minimi di deceduti per abitanti.

Immaginando che crisi simili possano ripetersi in futuro, è lecito chiedersi se un approccio più territorializzato e fondato su forme più intense di dialogo sociale – e quindi su quantità e qualità molto superiori di informazione circa le situazioni concrete – non possano produrre risultati migliori, sia dal punto di vista della protezione del bene primario – la salute delle lavoratrici e dei lavoratori – sia da quello della preservazione di parte dell’attività economica laddove ve ne siano i presupposti. È evidente che nella gestione di una crisi il fattore tempo è decisivo, ed è proprio per questo che il livello di informazioni e conoscenze pregresse disponibili al momento del suo irrompere lo è altrettanto: una parte importante della qualità di queste decisioni dipende dal quanto conosciamo – e nello specifico, dal quanto le istituzioni conoscono – i nostri tessuti produttivi entro e in relazione ai diversi sistemi insediativi e socio-territoriali italiani.

Guardando alla cosiddetta “Fase 2”, e ammesso che non vi sarà il bisogno anche di una terza fase, la questione della geografia appare egualmente essenziale. Ciò che sicuramente possiamo dire è che i dati ufficiali, ma anche le stime su contagi e mortalità reali, presentano un quadro radicalmente differenziato per regioni e province, per valori assoluti e per valori percentuali di positivi, ospedalizzati, guariti e deceduti. Guardando le tabelle e la figura che alleghiamo, è del tutto evidente quanto una discussione sulla Fase 2 focalizzata sui soli settori d’impresa non sia esaustiva, e quanto ci sia bisogno di ragionare egualmente sui territori in cui, per primi, può esserci una lenta ripartenza. C’è da chiedersi, per esempio, quanto sia opportuno che i cantieri della linea metropolitana M4 di Milano ripartano con masse di operai edili bergamaschi e che le imprese e i cantieri di molte regioni del Centro-Sud rimangano invece chiusi per la volontà di un governatore. Per quanto ancora si potrà continuare nella difficile politica di costrizioni e divieti per tutti i cittadini in condizioni territoriali diversissime per diffusione del virus e per densità abitativa?

Non sta a noi dire quando alcune attività potranno ripartire né quando alcune restrizioni potranno essere attenuate o rimosse. Ciò che vogliamo sottolineare è che la ripartenza non dovrà avvenire in modo uniforme e neppure sulla base della mera discrezionalità dei governatori regionali. L’uniformità formale di indirizzi, come sempre accade e come sta già avvenendo nella Fase 1, non farà che esacerbare la diseguaglianza sostanziale nella difesa della salute dei cittadini – giustamente considerata obiettivo primario dell’azione governativa – e l’inefficacia della ripartizione spaziale dei sussidi alle imprese e alle persone.

D’altra parte, una partenza differenziata non sarebbe priva di significati economici politici e culturali per promuovere una maggiore coesione socio-territoriale del paese. Come segnalato dallo stesso Svimez, la drammatica situazione sanitaria e la più lenta ripartenza di buona parte del Nord Italia può essere mitigata da una maggiore mobilitazione produttiva del Centro-Sud. Sebbene si tratti di un’ipotesi tutta da verificare nella sua fattibilità concreta, il Mezzogiorno in questa fase potrebbe dare un contributo più significativo alla produzione del reddito nazionale ed essere traino di una possibile ripresa economica.

Se è vero che questa è una grande crisi globale e che l’intero Paese è mobilitato per fronteggiarne gli effetti su scala nazionale, è egualmente vero che non tutti i territori vi partecipano in modo eguale. Ora che la crisi si inscrive nel medio periodo, non accorgersene sarebbe un grave errore.

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