Come contenere una nuova compressione nel privato?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Jacopo Leveratto

Data:

20 Aprile 2020

Oggi sul Corriere della Sera, un articolo promuove l’auto come il mezzo più sicuro per ripartire dopo il virus. Sono le case produttrici a dirlo, a fronte di un calo dell’ottantacinque percento delle vendite. Ma l’articolo non è un contenuto sponsorizzato e l’affermazione viene ribadita nel titolo come un dato di fatto, senza virgolettato. Certo, probabilmente è anche vera, da un punto di vista strettamente statistico. Ma, allo stesso tempo, fa pensare a un altro problema della stessa natura. Nonché alla sproporzione di risorse e misure messe in campo per affrontarlo.

L’ultimo report della EEA sulla qualità dell’aria, per esempio, ha stimato quasi sessantamila morti premature in Italia attribuibili, per il 2016, all’eccessiva esposizione a biossido di azoto, particolato e ozono. Il che non toglie nulla, ovviamente, della gravità dell’emergenza attuale. Né, tantomeno, può riorientare una scala di priorità, che è determinata dall’avere a che fare con un pericolo sostanzialmente sconosciuto. Ma dovrebbe far riflettere su come alcune scelte contingenti possano mettere a rischio traguardi parziali, raggiunti con enorme fatica. Perché il rischio è che l’emergenza faccia scattare un automatismo nel ripensare la propria normalità, che è l’esatto opposto di quello che in molti si augurano su questo blog.

Mi spiego meglio. Non è un mistero che, con il lockdown, la concentrazione di polveri sottili sulla Pianura Padana sia diminuita in modo eccezionale. Ma cosa succederebbe se, con la fase due, tutti decidessero, o fossero costretti a usare il proprio mezzo privato per spostarsi? Come ne risentirebbe la qualità dell’aria e, quindi, di nuovo, la salute di ognuno? E se questo modello dovesse consolidarsi in una fase tre? E la dispersione territoriale diventasse improvvisamente più attrattiva della nuova polarizzazione urbana degli ultimi anni? Torneremmo a un modello di sviluppo estensivo basato sulla mobilità personale? E cosa sarebbe di tutto l’impegno promosso negli ultimi cinquant’anni per la riduzione del consumo di suolo, per il potenziamento del trasporto pubblico e per la promozione – dalla mobilità all’abitazione – di sistemi di condivisione? Sarebbe questa la nuova normalità?

È solo un esempio, naturalmente, e anche molto parziale. Ma credo sia abbastanza significativo di come la compressione nel privato dettata dal distanziamento sociale non sia solo un problema logistico da affrontare con sistemi di efficientamento. Non basta aumentare lo spazio fra gli scaffali del supermercato, predisporre strutture coperte per le code fuori dagli edifici o ripensare gli spazi domestici per il telelavoro. Bisogna provare a risolverlo, pensando a orientare il dibattito in modi che, adesso, possono sembrare controintuitivi. Perché questa compressione – e uso compressione al posto di riflusso perché non stiamo parlando di valori, ma di pura circoscrizione spaziale – è l’esatto opposto del processo che, negli ultimi anni, ha permesso un miglioramento sostanziale della qualità ambientale dei luoghi in cui viviamo, almeno in media. E il ritorno a un modello di questo tipo rischia di essere davvero critico a lungo termine.

Probabilmente è presto per parlarne, visto che siamo ancora in fase uno e che l’emergenza ha bisogno di tutte le risorse disponibili in questo momento. Guardando, però, oltre l’emergenza, credo che la sfida più grande, dal punto di vista pratico e concettuale, sia quella di trovare il modo di scongiurare, contenere o mitigare una compressione nel privato che, sempre più spesso, viene proposta senza alternative. Come fare, ovviamente non lo so, ma credo sia comunque importante orientare in modo esplicito tutti gli sforzi in questa direzione. Perché è vero che la situazione attuale ci dà modo di pensare a come migliorare le condizioni da cui siamo partiti. Ma il rischio è che, senza un orientamento preciso, si vada verso un netto peggioramento.