covid19_milano sospesa

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Juno Tani

Data:

28 Aprile 2020

“ma sul finire del mese di marzo, cominciarono prima nel borgo di porta Orientale, poi in ogni quartiere, a farsi frequenti le malattie, le morti con accedenti strani, di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, ….*” ed è proprio poco distante da Porta Orientale sono state scattate queste “Polaroid”, immagini di una città sospesa tra paure e speranze raccontata attraverso frammenti minuti “pudicamente” raccolti per strada.

L’insieme di questi scatti, e quelli a venire, sono istantanee che concorrono a comporre un ritratto oggi si direbbe “in progress” di luoghi a noi usuali, luoghi nei quali però manca la vita e la poca che vi appare è fugace, celata o sospesa, così come si conviene alla gente per bene, in tempi assai grami.

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Quasi cento “frammenti” di una città “sospesa” che puoi vedere anche su: https://dij1.blogspot.com/.

 *Alessandro Manzoni, i promessi sposi.


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Distanziare, socializzare, spazializzare

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Luca Gaeta

Data:

27 Aprile 2020

Da quando il distanziamento sociale è diventato un obbligo, a causa della pandemia, noi assistiamo al moltiplicarsi di forme di socialità parzialmente nuove che coinvolgono le persone, gli oggetti e le reti digitali. Tuttavia c’è motivo di credere che al diverso modo di socializzare segua un altro modo di spazializzare. Mutati rapporti spaziali tra persone, oggetti e reti danno luogo a riconfigurazioni di quello che chiamiamo spazio, rendendoci consapevoli del suo evento. Nella sua gravosa necessità, il distanziamento ci mette in condizione di sentire lo spazio vibrare con forza per la tensione impressa dal repentino sottrarsi della nostra presenza.

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Memento Covid, l’architettura della pietas

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Alessandro Rocca

Data:

27 Aprile 2020

Compito e merito degli architetti è stato quello di esercitare, per conto della collettività, la pietas, quel sentimento di rispetto, umana comprensione e condivisione del dolore, che solo l’architettura ha saputo esprimere, sin dalla funzione elementare del sepolcro. La famosa dichiarazione di Adolf Loos esprime con forza la capacità dell’architettura di costituirsi come il primo tramite del sentimento di pietà, di rispetto e di ricordo dell’uomo: “Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura”[*] . Loos immagina questo ritrovamento in un bosco, al di fuori della civiltà, e identifica il riconoscimento dell’architettura in un evento che è, nello stesso tempo, emozionale e cognitivo, che unisce il sentimento della perdita e del ricordo con il riconoscimento di una forma e di una funzione.

[*] Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1972.

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Architettura nel rischio: forme di adattamento

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Giulia Setti

Data:

26 Aprile 2020

Che cosa vorremo rischiare nell’immediato futuro?

Il ‘rischio’ è ciò che ci permette di valutare il pericolo, di comprendere come reagire e come proteggerci; negli ultimi anni, l’Italia ha dovuto affrontare, e subire, gli effetti, spesso drammatici di eventi improvvisi, di calamità naturali (terremoti, alluvioni) che hanno messo in luce i rischi idrogeologici e sismici a cui il paese è soggetto.

Come arginare i rischi ambientali, come prevenire e proteggere architetture, territori e abitanti da pericoli improvvisi ma noti, è stata una delle domande più urgenti alle quali si è provato a dare risposta.

Se, prima, il rischio era visibile o, quantomeno, conosciuto, oggi è una variabile latente, nascosta, impercettibile che ci obbliga a forme di protezione radicalmente diverse: separando, dividendo e riducendo i contatti, la socialità.

Ci stiamo adattando, o così pare; sviluppiamo forme di adattamento diverse per rispondere a un fenomeno nuovo, inatteso e violento.

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Quale spazio collettivo potremo abitare nei prossimi mesi?

I territori fragili e l’epidemia: riflessioni

Autore:

Arturo Lanzani, Antonio Longo, Cristina Renzoni, Federico Zanfi

Data:

25 Aprile 2020

Tra le misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, una delle più rilevanti riguarda il divieto di frequentazione degli spazi pubblici aperti, a prescindere dalla loro natura, localizzazione e modalità di fruizione e uso. Queste brevi note intendono sollevare a questo proposito due questioni relative a) ad una necessaria differenziazione tra territori, densità insediative e famiglie di luoghi pubblici; b) ad un urgente ripensamento nella progettazione e gestione degli spazi aperti collettivi, spostando l’attenzione dai nodi ad alta frequentazione, a favore invece di interventi più diffusi, a rete e a bassa intensità di uso. In conclusione vengono evocati due campi d’azione possibili che mettono al centro lo spazio plurale della strada e della trama di quelle che genericamente definiamo “reti verdi”.

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La Ricerca ai tempi del Coronavirus Il progetto nello spazio off-line: Carcere e altre forme di emarginazione

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Andrea Di Franco

Data:

24 Aprile 2020

Il nostro gruppo lavora, da diversi anni e secondo due linee di ricerca distinte seppure  confrontabili, per definire un metodo relativo al progetto dello spazio di relazione negli ambiti più critici della periferia urbana e all’interno delle case di reclusione. Si tratta di un approccio basato, in entrambi i casi, sulla sperimentazione sul campo.

Gli ambiti abitativi critici e gli ambiti detentivi, per quanto entrambi inclusi nel corpo della città, esprimono caratteri -critici- di “extra-territorialità” piuttosto affini.

In questo periodo, affiancando gli attori impegnati in questi ambiti ed i loro abitanti, ci siamo trovati a fare i conti con due fenomeni che coinvolgono il nostro metodo di lavoro e che amplificano il potere destabilizzante dell’emergenza sanitaria: la sospensione delle relazioni di prossimità, delle azioni dirette sul campo e la difficoltà o l’assenza di accesso alla rete informatica come sostituto di emergenza. In altre parole, la quasi totale disconnessione dal resto del mondo

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Un’icona per le fragilità

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Claudio Umberto Comi

Data:

24 Aprile 2020

L’idea stessa di icona dopo contemplazioni di “pantocratori” su fondo oro e richiami degli “omini” delle toilettes ci porta immediatamente alla mente ciò che oggi nel linguaggio comune siamo soliti definire iconico. L’apparente similitudine dei termini non deve però trarci in inganno perché tra loro intercorre la stessa relazione che abbiamo tra semiotica e semiologia; se la prima indaga “de visu” i segni e le loro significazioni nella seconda questi vengono interpretati attraverso lo studio del linguaggio che li racconta. La differenza che intercorre dunque tra questi due approcci comunque indagatori è principalmente quella del lavorare direttamente sull’oggetto dello studio e quello di indagarlo attraverso un medium: per l’appunto il linguaggio. Linguaggio che già del suo ha una valenza essenziale nella gestione della crisi epidemica che stiamo vivendo.

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Appunti per una possibile riflessione sulla nuova dimensione dell’abitare in tempi di covid 19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Guya Bertelli

Data:

23 Aprile 2020

Tema di sfondo: Pratiche urbane, pratiche dell’abitare
Forme dell’abitare, luoghi della condivisione, dimensioni della convivenza, spazio pubblico e spazi privati sono visibilmente affetti dalle conseguenze della pandemia, in Italia e nel mondo. Quali saranno i possibili effetti futuri della pandemia sulle pratiche d’uso e sul disegno dello spazio urbano? Cosa pensare della dimensione dello sharing? Quali effetti su possibili fenomeni di “introversione” delle pratiche di vita? Quale nuovo senso e ruolo per la dimensione degli “interni”? Quali responsabilità pubbliche a fronte della estesafragilizzazione delle condizioni abitative?

Settore di ricerca: Vulnerabilità, fragilizzazione, crisi abitativa
A fronte di un mercato del lavoro fortemente orientato alla flessibilità e segnato dalla discontinuità e incertezza dei redditi insieme agli elevati costi della vita e delle abitazioni in quelle città, come Milano, più attraenti sul piano occupazionale, assistiamo oggi ad una incredibile estensione dei gruppi sociali vulnerabili e ad una fragilizzazione delle condizioni abitative di molti. Quali interventi in campo abitativo sono necessari a supporto di individui e famiglie che devono fronteggiare la riduzione o la scomparsa delle proprie fonti di reddito (spesso non contrattualizzate)? Come riportare le abitazioni ad essere base materiale per lo sviluppo personale e collettivo e non già solo fronti di investimento finanziario? Come ridisegnare le politiche abitative in rispondenza di un loro contributo alla protezione sociale?

 

Le forti ricadute che l’emergenza COVID 19 sta comportando sui consolidati rapporti tra casa, città e territorio, ed i profondi effetti che questi avranno sulle popolazioni e sulle relazioni sociali in generale, sono orami riconoscibili in tutti i campi disciplinari, con specifico riferimento agli studi legati ai temi dell’abitare.

L’emergenza COVID e i suoi seguiti richiederebbero infatti di verificare e rielaborare i principi distintivi dell’abitare sulla base di nuovi parametri di convivenza e coesistenza tra le persone.

Nel quadro delle nuove condizioni che si stanno definendo, dove il settore delle costruzioni e attività correlate hanno un ruolo essenziale, l’architettura si trova a recuperare il suo mandato sociale, teso a comprendere, nell’urgenza inaspettata, quali siano i confini della nostra etica disciplinare e quali i nostri doveri sociali.

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Innanzitutto la consapevolezza del fatto che questa emergenza determinerà cambiamenti ed esigenze nuove nella vita di ognuno di noi, ci porta a ridisegnare paradigmi, metodologie e strumenti in relazione ad una ‘deontologia’ dell’architettura che forse per molto tempo è stata TRASCURATA.

Un cambiamento di rotta
Soprattutto per quanto concerne il settore dell’Edilizia residenziale (pubblica e sociale), la nuova visione che si va aprendo a seguito dell’esperienza dell’abitare in questo periodo d’emergenza ‘Covid-19’, sembra spingere verso una riflessione più ampia del quadro insediativo in generale, con specifici ripensamenti verso una nuova visione dello spazio domestico rispetto allo spazio pubblico. 

E questo soprattutto per i seguenti fattori:
1.“L’attuale emergenza sta modificando radicalmente esperienza e fruizione delle nostre città
“La città non è soltanto un ente erogatore di servizi. Ma anche – è ancora la Costituzione a spiegarcelo –afferma Giovanni Maria Flick,  una “formazione sociale ove si svolge la personalità, si riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili e si richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. In questa dimensione dunque la città ha il ruolo di coltivare le relazioni sociali, affrontando e cercando di risolvere i molteplici problemi della convivenza e gestendo le inevitabili conflittualità

2.Tutti hanno maturato la consapevolezza che questa situazione possa ripetersi in futuro e ognuno cercherà di riorganizzare la vita in funzione di questa eventualità. Inoltre, la forma di ‘segregazione’ indotta dallo stato emergenziale, sta fortemente divaricando la ‘forbice’ sociale a discapito delle classi più disagiate, costrette a condividere diverse ‘vite’ in pochi metri quadri.

3.Un cambiamento di abitudini quotidiane prima impensabile sembra definire i nuovi confini tra spazio pubblico e spazio privato.
Stiamo assistendo ad un radicale ribaltamento del rapporto tra pubblico e privato: Da un lato stiamo sperimentando  la privazione dei luoghi pubblici dall’altra ci accorgiamo che li stiamo ‘reinventando’ all’interno delle nostre abitazioni.
Tornano al centro due grandi temi: la città e la casa, ma in un’ottica molto diversa dal passato, che mette in gioco ancora una volta il rapporto dentro/fuori, interno/esterno, pubblico/privato.

Riprendendo le parole di Mario Spada, presidente onorario della Biennale dello spazio pubblico:“Il parco pubblico è sostituito dal terrazzo condominiale, il marciapiede dal balcone dal quale si lanciano canti e messaggi augurali, l’incontro con docenti, compagni di scuola, amici e parenti avviene virtualmente chiusi in casa davanti allo schermo del computer; la passione podistica o ciclistica si esercita in improvvisate palestre casalinghe dotate di cyclette e altre attrezzature di fitness.

Se lo spazio pubblico infatti, sottratto ad un uso sociale adeguato, sembra ‘concentrarsi’ entrando forzatamente nelle mura domestiche (anche attraverso la sua continua ricostruzione virtuale), lo spazio interno per contro pare ‘dilatarsi’ a coinvolgere azioni sempre più ‘comuni’, legate ad una nuova dimensione condivisa dell’abitare.

Questo processo di simultanea concentrazione/dilatazione dello spazio diviene un parametro importante per misurare la resilienza e la potenzialità di adattamento dei luoghi dell’abitare in periodi di emergenza come il presente, mettendo in luce tutte le criticità delle tradizionali forme abitative a fronte della nuova condizione sociale.

Essendo lo spazio pubblico indispensabile per riconoscersi come parte della comunità, questa sua ‘dissoluzione’ all’interno dello spazio domestico comporta infatti una parallela disgregazione del rapporto interno/esterno, mettendo a dura prova non solo la propria identità, ma anche quella della ‘casa’, che assume forme di ibridazione talora molto evidenti: proprio lo spazio domestico diviene infatti la ‘sede’ di una serie di attività che interferiscono in una  successione di azioni spesso sovrapposte o in conflitto.

Alla luce di questo osservatorio, le mancanze più percepite sembrano essere:
-gli spazi interni, soprattutto per le classi meno abbienti
-gli spazi esterni, per tutte le classi sociali
-la velocità del web ( per le classi più disagiate)
-la potenza del wifi (per le classi più disagiate)
-la possibilità di un computer personale per ognuno
-gli spazi comuni protetti
-gli spazi privati garantiti
-la certezza di vivere in un ambiente con l’aria decontaminata nel modo più naturale e senza manutenzione
-l’acculturamento e la socializzazione “da cortile” dell’infanzia

Non rimane che pensare a come portare la natura all’interno degli spazi in cui vive l’umanità.

Negli anni 60 si era sviluppata la sindrome della guerra nucleare e coloro che avevano la possibilità economica (in Svizzera credo fosse di prassi per le nuove costruzioni) si costruivano i bunker sotto terra.

Dopo questa esperienza chiunque vorrebbe ora uno spazio all’aperto, un tetto-orto, un giardino, un prato in cui rifugiarsi protetto dalle aggressioni microbiologiche. (Credo che per riprogettare si debbano individuare le realtà che hanno reso meno drammatica la quarantena e che sono quelle definite dalla natura: boschi, montagna, laghi, mare).

Allo stesso tempo non si può dimenticare che la gran parte delle persone vive in città per bisogno di socialità e che, durante questa emergenza, si sono sviluppate forme di socializzazione condominiale insperate ( gruppi di acquisto su chat, informazioni, collegamenti telematici e webinar sulla gestione dei figli, sui compiti e sulla cucina) di cui bisognerà tener conto per le future progettazioni.

Si pongono domande urgenti:

Per quanto tempo ancora dovremo accettare più costrizioni nei comportamenti sociali e saremo sempre più sotto controllo?
Come fare a risarcire lo spazio pubblico ‘negato’ all’interno dell’unità abitativa quando ancora numerose (forse troppe) famiglie vivono in spazi assai limitati e assenti di qualsiasi dispositivo di connessione?
Ma c’è una domanda più insidiosa: quante di queste abitudini straordinarie a cui siamo costretti diventeranno ordinarie se sono attendibili le previsioni di scienziati e virologi che annunciano un lungo periodo di instabilità segnato da nuove possibili pandemie favorite da un modello di sviluppo insostenibile che confligge con le leggi della natura?
Queste ed altre domande mettono le diverse competenze coinvolte di fronte a nuove responsabilità, non certo risolvibili in tempi brevi. Quello che è certo è che sta nascendo una ‘nuova’ dimensione dell’abitare, sia pubblica che privata, proprio a partire dalla fragilità che stiamo vivendo e questo ci porta ad assumere nuove responsabilità, come architetti,come  ingegneri ma anche come cittadini. 

“Sicuramente è prevedibile” continua Spada “una significativa limitazione nell’uso degli spazi pubblici per i quali saranno definiti protocolli di comportamento talmente restrittivi che ne potranno snaturare le funzioni e il valore d’uso….. Forse aumenteranno i third places teorizzati del sociologo Ray Oldenburg, spazi privati con alcuni caratteri pubblici, terzi in quanto collocati in un’area intermedia tra l’abitazione e il lavoro”.

 

L’emergenza ha assolutamente posto in primo piano nuove parole chiave sulle quali bisognerà tornare a ragionare:

DISTANZA
VUOTO
CASA
SPAZIO PUBBLICO
SPAZIO PRIVATO
ADATTABILITA’
LENTEZZA
RELAZIONE
FRAGILITA’
RESILIENZA

A queste parole andrebbe associato un decalogo di ‘best practices’ cui possano corrispondere altrettante ‘best actions’ per il futuro   …. Ma sto ancora lavorando in questa direzione

Milano, 18/04/2020                                      

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Emergenza e riflessi sull’abitare – 2. Sull’abitare condiviso

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Stefano Guidarini

Data:

23 Aprile 2020

Sul versante dell’abitare si stanno già delineando alcune posizioni – è bene sottolineare del tutto estranee al nostro dipartimento – che “prevedono” per il futuro una crisi dello spazio pubblico e una crisi degli spazi di relazione della residenza, sia stabile che temporanea (per anziani, studenti, lavoratori, ecc.).

I cosiddetti spazi intermedi della residenza, cioè quegli spazi-filtro che si sviluppano tra l’uscio di casa e il marciapiede che spesso determinano – più dell’alloggio stesso – la vera qualità dell’abitare, sembrano essere, secondo opinioni che non possiamo condividere, in profonda crisi. Qualcuno ha perfino ipotizzato forme di residenza che si avvicinano a quella degli “hotelf1” di origine francese, nei quali sono del tutto “scongiurate” le relazioni interpersonali.

Al contrario, quello che sta emergendo dalle cronache d’attualità è proprio l’importanza dell’abitare collaborativo, basato sul senso di solidarietà e di responsabilità delle persone. L’isolamento e l’egoismo condominiale, al di là dell’emergenza e della riduzione dei contatti fisici, non sono un vantaggio per nessuno.

All’interno delle diverse forme di abitare collaborativo (flat-sharing; co-living; case-comunità /co-housing; comunità di vicinato), insieme ai temi quanto mai attuali della residenza-lavoro, i margini di ricerca sono ampi e quanto mai attuali.

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Alla scala del singolo appartamento si può osservare che molte abitazioni contemporanee si stanno dimostrando inadeguate e prive di privacy. Vale la pena di notare che questo riguarda soprattutto le case del dopoguerra e, in particolare, quelle degli ultimi 20 anni, progettate secondo un principio di specializzazione degli spazi ancora di origine funzionalista e con superfici minime rispetto a quelle delle generazioni precedenti, con camere di 9- 14 mq (con i nuovi regolamenti anche 8-12 mq) e i soggiorni poco di più.

Fino al periodo tra le due guerre le case (comprese le case popolari IACP) avevano camere da letto e stanze di 20 mq e oltre. Inoltre, in molti casi la distribuzione interna relativamente neutra permetteva anche di modificare l’uso dei locali. Si poteva scegliere di avere il soggiorno in una stanza piuttosto che in un’altra.

La specializzazione del XX secolo, con l’invenzione funzionalista della zona-notte e zona-giorno, ha cancellato questa preziosa polivalenza dei locali dell’abitazione. In quelle case si poteva anche lavorare, molte di esse oggi funzionano come studi professionali, uffici amministrativi, scuole, anche come spazi commerciali.

Queste non sono osservazioni nostalgiche, non vuol dire che si debba tornare a progettare le case come nel periodo tra le due guerre, ma occorre recuperare con altre forme quella polivalenza e flessibilità degli spazi che erano la qualità principale di quelle case. Anche perché oggi no possiamo tornare alle dimensioni dei locali di quel periodo, perché le condizioni economiche non lo permettono.

Oggi la riduzione delle superfici è dettata dalle regole del mercato: ti offro un quadrilocale dove prima ci stava solo un trilocale, a parità di superficie. Se il progettista è bravo può anche riuscirci, ma nella maggior parte dei casi no. Il risultato è che le camere e i soggiorni, anche nelle case a libero mercato in zone prestigiose, hanno locali minimi e super-specializzati dove puoi fare una cosa sola, dormire o mangiare o poco altro. Sono inadatte ad affrontare nuove situazioni che non dipendono solo dall’attuale emergenza sanitaria, ma che sono una delle necessità ormai impellenti dell’abitare contemporaneo.

Sottolineo quindi l’importanza di sviluppare il tema progettuale della polivalenza degli spazi dell’abitazione.

La polivalenza indica la capacità di uno spazio di adattarsi a usi diversi senza modifiche fisiche della forma o della distribuzione, mentre la flessibilità indica la capacità di uno spazio di essere modificato nel tempo per rispondere a nuove necessità. La polivalenza parte dalle persone e dall’uso che le persone fanno degli spazi, la flessibilità comporta invece un adattamento della forma, e quindi modifiche costose.

Un altro versante di ricerca è quello normativo[1]. Oggi i regolamenti italiani sono improntati per la maggior parte su un modello di casa funzionalista che privilegia la specializzazione degli spazi. Un altro versante di ricerca dovrebbe quindi affrontare proprio la revisione del corpus normativo sulla casa, al fine di permettere tipi di distribuzione e forme di organizzazione spaziale che consentano una più ampia polivalenza degli spazi. In molti esempi stranieri (ad esempio Svizzera, Austria e Francia), la distribuzione interna degli alloggi è quasi elementare e molto più flessibile rispetto a quella di una casa italiana.

L’idea potrebbe allora essere quella di proporre interventi-pilota su edifici esistenti e per edifici nuovi di sostituzione edilizia. Progetti per edifici “fuori-norma”, o meglio edifici sperimentali (sul modello del Weissenhof, dell’Hansa-Viertel o del QT8-Triennale) per sperimentare un rinnovamento degli spazi dell’abitazione.

[1] Il tema è oggetto di ricerca ex-FARB dal titolo “Si può fare? L’abitare contemporaneo tra norme, pratiche e progetto”, da parte del gruppo di lavoro composto da Paola Savoldi (coordinatore), Massimo Bricocoli, Stefano Guidarini, Gennaro Postiglione, Stefania Sabatinelli, con Marco Peverini, Federica Rotondo.

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Lesmo - Centro Lega del Filo d'Oro - Guidarini & Salvadeo 2005 Foto Marco Introini
Lesmo - Centro Lega del Filo d'Oro - Guidarini & Salvadeo 2005 Foto Marco Introini

Emergenza e riflessi sull’abitare – 1. Sulle condizioni di vita nelle case e nei luoghi pubblici

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Stefano Guidarini

Data:

22 Aprile 2020

L’attuale condizione di permanenza forzata nelle abitazioni sta riempiendo social network, tv e giornali di reazioni a caldo dettate dalla paura, dall’ansia, dalla noia e anche da moti di ribellione e di sfiducia verso chi ci governa, o meglio, verso chi ci dovrebbe governare.

Molti architetti, designer, intellettuali e giornalisti hanno iniziato, a vario titolo tra il serio, l’ironico e l’arrabbiato, a fare analisi e ad avanzare ipotesi su questo improvviso presente.

La nostra posizione di studiosi e di ricercatori ci deve però spingere a tentare alcune prime riflessioni su basi più ponderate, per quanto possibile.

Non è facile perché in questo momento (10 aprile 2020) siamo dentro al problema, e quindi non abbiamo ancora la distanza critica per fare analisi, interpretazioni e proposte su basi tecnico-scientifiche. In ogni caso, alcune considerazioni, dopo oltre un mese, si possono fare.

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Una preoccupazione a livello globale è che le epidemie di massa sembrano essere sempre più ravvicinate nel tempo: tre in questi primi vent’anni del XXI secolo. Come molti hanno già osservato, il loro effetto è peraltro accelerato dalla velocità degli spostamenti, anche se in alcuni casi la diffusione è stata ritardata o fermata dalla pronta reazione medica e dal supporto scientifico (non nel caso attuale). Questa inquietante frequenza è forse il segno che qualcosa si è rotto nel rapporto tra “civiltà” ed ecosistema e, in generale, in molti aspetti relativi allo sfruttamento delle risorse.

La politica, le pubbliche amministrazioni e molte istituzioni stanno deludendo. Presidenti e primi ministri delle nazioni più importanti e molti degli improvvisati di casa nostra sembra abbiano fatto la gara a chi ha fatto gli errori peggiori. Errori che purtroppo stanno costando vite umane. Anche una certa burocrazia si sta dimostrando inefficiente, come nel caso delle tragicomiche famigerate autocertificazioni, un lampante caso di comicità involontaria.

La solidarietà sta dimostrando, ancora una volta, di essere una delle componenti chiave della civiltà. I numerosi esempi, che vanno dall’aiuto all’anziano della porta accanto, ai dolorosi sacrifici dei medici e degli operatori sanitari, alle donazioni di magnati e aziende – solo per citarne alcuni – sono la dimostrazione che qualcosa rimane nella coscienza personale e collettiva.

Non mancano peraltro manifestazioni di egoismo e di mancanza di responsabilità da parte di molte singole persone, di molte istituzioni e pubbliche amministrazioni.

Come ha osservato Massimo Cacciari: ha senso ancora parlare di Europa? Di solidarietà europea? In tempi di crisi, e soprattutto con il profilarsi minaccioso di una grave crisi economica, egli ci ha fatto notare che se non si recupera appieno in senso di unità europea, se ciascuno pensa per sé, l’intera Europa sarà condannata ad un lento declino sociale, politico ed economico rispetto al resto del mondo.

La città degli uomini sta dimostrando ancora una volta di essere la parte essenziale della civiltà. È una considerazione banale ma in tempi come questi vale la pena ricordarlo. La città di pietra sembra vuota e appare come un fondale astratto che ha l’effetto di un pugno nello stomaco. La forza scioccante del vuoto è testimoniata dal fioccare di foto di famosi spazi pubblici privi di persone, a partire dalla fortissima immagine di Papa Francesco in una Piazza San Pietro drammaticamente deserta.

Ma in realtà le città non sono vuote, gli abitanti ci sono. Se le strade e le piazze appaiono vuote ma per fortuna le case sono piene. Non siamo né Pompei né Ercolano, né una ghost-city. Questo significa che le città stanno vivendo una sorta di letargo, ma sono pronte a risvegliarsi.

È fondamentale confutare – e in molti per fortuna lo stanno già facendo – l’irresponsabile paragone con la guerra. Non siamo in guerra ma stiamo affrontando un’epidemia, che è cosa totalmente diversa. Sostenere che siamo in guerra è una mancanza di rispetto verso chi la guerra in casa ce l’ha davvero, e significa anche dimostrare inaffidabilità e mancanza di lucidità da parte di chi si lancia in questo tipo di proclama.

Per questo motivo è necessario contrastare una serie di derive inquietanti che si stanno profilando all’orizzonte che minano, per paura, per ignoranza o per lucido calcolo i valori della democrazia e della nozione di pubblico. A partire, ovviamente dalla Sanità Pubblica, della quale tutti stanno tragicamente riscoprendo l’importanza.

Sta emergendo una situazione temporanea di vita all’interno delle case all’insegna dei divieti e del controllo. È necessario affermare e ribadire proprio la temporaneità di questa situazione, dettata solamente dall’emergenza sanitaria.

È necessario anche smentire le insistenti derive di crisi dello spazio pubblico, di fine-vita degli spazi della condivisione e dell’incontro tra le persone. C’è già chi sostiene il profilarsi di una nuova a-socialità dettata dalla paura, come una sorta di “disurbanesimo” contemporaneo.

Anche se il lavoro da casa, il tele-lavoro, lo Small-Office Home-Office (SOHO) sono da molto tempo nell’agenda di studio di architetti e pianificatori di tutto il mondo, la condizione di non poter incontrare le persone è una costrizione temporanea, che forse lascerà qualcosa di positivo e qualcos’altro di meno positivo, ma non è la condizione futura. La vita on-line non sostituisce la vita reale, anche se in alcuni casi può contribuire a migliorarla. La storia stessa ce lo insegna.

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Milano Cso San Gottardo -2019 foto Marco Introini
Milano Cso San Gottardo -2019 foto Marco Introini