Aree interne e città. Né vincitori né vinti nella lotta contro il Covid-19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Annunziata Maria Oteri

Data:

22 Aprile 2020

“Ad Armungia – scrive Roberto Cabboi in un post su facebook del 14 marzo scorso – fino a qualche giorno fa potevi andare a fare la spesa nelle piccole botteghe del paese, prenderti cura dell’orto o del giardino, fare una passeggiata in campagna, andare al tabacchino da Gigi, andare al bar da Cristof. Adesso puoi fare la spesa nelle piccole botteghe del paese, prenderti cura dell’orto o del giardino, fare una passeggiata in campagna, andare al tabacchino da Gigi. Ecco purtroppo abbiamo momentaneamente perso la possibilità di andare al bar da Cristof”.

Fa eco Vito Teti, dal balcone della sua casa a San Nicola di Crissa, un nucleo storico di poche anime alle pendici del Monte Cucco, una ventina di chilometri da Vibo Valentia, dove la pandemia ha confermato gli stessi silenzi e le stesse solitudini di prima. Il virus, scrive Teti, colpisce periferie urbane inquinate e invivibili, città sovraffollate e caotiche, ma si “avvina” anche su paesi già malati di abbandono (Un etnografo nel suo paese e nella sua casa ai tempi del coronavirus, è del 14 marzo 2020).

In questi luoghi – i numerosi piccoli centri spopolati della nostra Italia – strade deserte, silenzio e tempo sospeso sono una consuetudine, non l’eccezione dettata dall’emergenza. Nessuno in questi giorni posta video o immagini di piccoli centri vuoti, perché non fanno notizia, come non fa notizia la solitudine di chi li abita; mentre le immagini di Milano, Brescia o Firenze, bellissime ma disperatamente deserte, hanno fatto il giro del mondo.

read-more


La riflessione è senz’altro ovvia: per chi è abituato a vivere con poco (niente cinema, teatri e neanche persone con cui incontrarsi) il disagio del lockdown è modesto o inesistente. In questi luoghi si fa quello che si faceva già prima, quindi, paradossalmente, al momento si vive meglio che in città normalmente affollate e oggi improvvisamente segregate. Ciò a maggior ragione, poi, da quando ci siamo accorti che il virus non distingue tra periferia e centro; non muoiono solo gli anziani della val Seriana ma anche i giovani che vivono a Milano.  In effetti è vero che chi ha potuto, incluso chi scrive, ha deciso di affrontare la quarantena lontano dalle città infette – dove magari abitualmente vive per lavoro – rientrando nei luoghi di origine. Non è solo l’idea di una vicinanza fisica alla propria famiglia che ha spinto i “rientranti” a muoversi in piena emergenza, o la certezza di andare incontro a una gestione più semplice del quotidiano (niente più code estenuanti per la spesa, ad esempio, perché quello che ti serve lo compri al negozietto dell’amico di infanzia, o lo raccogli nell’orto dietro casa). Vi è anche, credo, nella spinta a “rientrare” una percezione differente del pericolo di contagio; d’altra parte, i dati stanno dimostrando che la possibilità di contrarre il virus nelle aree meno popolate, a meno di alcune eccezioni e qualunque ne sia la ragione, è minore. Per certi versi, poi, nei luoghi dove il numero dei contagi si è attestato su cifre ragionevoli, la gestione dell’emergenza si è rivelata più semplice: lì dove rimane ancora qualche traccia di una rete sanitaria territoriale, ad esempio, è stato possibile gestire i contagi con terapie domiciliari, riducendo la pressione negli ospedali e dando ragione a chi, già in tempi non sospetti, scommetteva su “medici scalzi” e  “sentinelle di comunità” per recuperare una dimensione territoriale della cura (Luca Tantillo, Il paese remoto dopo la pandemia, https://www.leggiscomodo.org/il-paese-remoto/). Abbiamo poi verificato che seppure il digital divide si conferma un problema nelle aree interne, con un po’ di organizzazione, la didattica a distanza è possibile anche in una piccola frazione della val Soana e che, in fin dei conti, le complicazioni che le famiglie hanno dovuto affrontare per far studiare i loro figli in quarantena, pur nella diversità dei casi, hanno riguardato grandi e piccoli centri, costa e interno, senza distinzioni.

Del valore del territorio, delle comunità, della prossimità si è dunque ripreso a parlare con un certo ottimismo in questi giorni, sottolineando per contrasto e con quel tanto di cinica soddisfazione, la fragilità di una regione, la Lombardia, fino a ieri inarrestabile motore dello sviluppo del nostro Paese e oggi in crisi per l’inaspettata invadenza del virus (M. Imarisio, Nelle due Italie del coronavirus l’insofferenza (sbagliata) verso la Lombardia, “Il Corriere della Sera, 16 aprile 2020).

 Sembrerebbe pertanto profilarsi una rivincita dei territori interni, che molti vorrebbero cavalcare contro il fallimento del modello città, auspicando addirittura che i “rientranti” si trasformino in “ritornanti”. È un ottimismo che inevitabilmente si ridimensiona se, lasciando da parte i dati e le stime ufficiali – peraltro in molti casi contrastanti – ma anche quel soffio di positività portato da chi è rientrato, si rifletta su questioni meno quantificabili (e sulle quali è senz’altro prematuro pensare a un bilancio realistico), come ad esempio il fatto che l’epidemia abbia amplificato, anziché ridurle, le paure generate dalle diseguaglianze sociali: “se esplodesse qui, sarebbe una strage” si sente ripetere tra chi abita nei territori interni, nella precisa consapevolezza della carenza di servizi essenziali, dell’assenza dello Stato e dell’inadeguatezza degli amministratori locali. Insomma, oltre a mostrare la fragilità delle nostre città, l’epidemia ci impone di non dimenticare, di là dei segnali positivi che ovunque si raccolgono, la fragilità dei territori di margine.  

Pertanto, se il nodo della questione è aree interne versus città, difficilmente il dibattito sortirà qualche esito, come raramente portano frutti le contrapposizioni e le facili rivalse. Finita l’emergenza, forse troppo breve, seppur drammatica, per avere effetti concreti su politiche e comportamenti, torneremo a verificare che le aree interne sono quello che erano prima della pandemia e che, nella maggioranza dei casi, chi vi si è rifugiato per sfuggire al pericolo di un contagio non vi troverà le condizioni per “restare”. A conferma di ciò basta osservare, come peraltro opportunamente fanno Coppola, Curci e Lanzani su questo blog (Covid 2019. È necessario elaborare politiche differenziate nei diversi territori e guardare diversamente al sud d’Italia, 16 aprile 2020) che sia nell’organizzazione dell’emergenza che nei primi, confusi programmi post-quarantena, le politiche nazionali di gestione del territorio non sembrano guardare alle aree interne o quelle fragili del sud d’Italia come a potenziali risorse per la ripartenza. Se guardiamo alle città, poi, in fondo, le fragilità che la pandemia ha lasciato emergere in modo così dirompente, erano già per molti versi latenti.

Non ci sono dunque né vincitori, né vinti.

Riducendo di molto la portata del nostro sguardo ambizioso sul futuro, ci sarebbe invece da osservare e analizzare un fenomeno di questi giorni, che riguarda la capacità delle comunità, piccole o grandi, di quartieri di città o di villaggi, di reagire riorganizzandosi intorno al tema della cura e della solidarietà, mostrando peraltro risorse inaspettate. Forse è vero che questi “piccoli conati di autodifesa” (G. Carrosio, Cittadinanza e aree interne in Italia nell’ambito della giornata di studi Un’agenda di ricerca per le fragilità territoriali, DAStU Dipartimento d’eccellenza Fragilità territoriali, Politecnico di Milano, 26 marzo 2019) trovano, e non da ora, terreno più fertile nei territori che da tempo combattono marginalità e diseguaglianze civili, perché quando si ha poco si è costretti a sopperire con creatività e ingegno. A maggior ragione dunque, questo non è il tempo della contrapposizione ma della condivisione di esperienze e risultati. Si tratta, è vero, di microprogetti che hanno probabilmente scarsa incidenza sulla portata dirompente e drammatica del fenomeno Covid, che tuttavia ci invitano a riflettere sul ruolo delle risorse di comunità e sul fatto che indipendentemente da dove le si pratichino, sono un importante segnale di resistenza (e di speranza) nei tempi difficili che ci aspettano. A chi, come noi, fa ricerca sul territorio, si offre dunque l’occasione di raccogliere e interpretare questi fenomeni, spontanei, è vero, ma molto spesso più efficaci delle politiche concertate, e di verificare eventualmente la possibilità di trasformarli in qualcosa di più. Nella fase di post-emergenza (o di semi-emergenza) che ci attende questo sarebbe già un gran risultato.

read-less

Un’altra Milano in attesa

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Giovanni Hanninen

Data:

21 Aprile 2020

In questo periodo di lock down ho cominciato a raccontare la città di Milano documentandone i cambiamenti aspettando momento in cui, lentamente, si riaprirà.
 
Milano rischia di diventare una delle città più colpite al mondo dalla pandemia. In questo percorso fotografico vado a mostrare gli spazi urbani in questo momento epocale. La città è vuota ma alcune attività continuano, lasciando segni che nel tempo della riapertura continueranno ad essere più evidenti. 
Non sappiamo come cambierà il futuro della vita nelle città e questo progetto ne seguirà i cambiamenti nei mesi a venire.
 
Una selezione del lavoro verrà pubblicata mano a mano sul mio profilo Instagram: @giovannihanninen
 
MilanoCovid-Cordusio©hanninen-CF070029
MilanoCovid©hanninen-CF069514
MilanoCovid-Cavalcavia©hanninen-CF068196

Come contenere una nuova compressione nel privato?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Jacopo Leveratto

Data:

20 Aprile 2020

Oggi sul Corriere della Sera, un articolo promuove l’auto come il mezzo più sicuro per ripartire dopo il virus. Sono le case produttrici a dirlo, a fronte di un calo dell’ottantacinque percento delle vendite. Ma l’articolo non è un contenuto sponsorizzato e l’affermazione viene ribadita nel titolo come un dato di fatto, senza virgolettato. Certo, probabilmente è anche vera, da un punto di vista strettamente statistico. Ma, allo stesso tempo, fa pensare a un altro problema della stessa natura. Nonché alla sproporzione di risorse e misure messe in campo per affrontarlo.

L’ultimo report della EEA sulla qualità dell’aria, per esempio, ha stimato quasi sessantamila morti premature in Italia attribuibili, per il 2016, all’eccessiva esposizione a biossido di azoto, particolato e ozono. Il che non toglie nulla, ovviamente, della gravità dell’emergenza attuale. Né, tantomeno, può riorientare una scala di priorità, che è determinata dall’avere a che fare con un pericolo sostanzialmente sconosciuto. Ma dovrebbe far riflettere su come alcune scelte contingenti possano mettere a rischio traguardi parziali, raggiunti con enorme fatica. Perché il rischio è che l’emergenza faccia scattare un automatismo nel ripensare la propria normalità, che è l’esatto opposto di quello che in molti si augurano su questo blog.

Mi spiego meglio. Non è un mistero che, con il lockdown, la concentrazione di polveri sottili sulla Pianura Padana sia diminuita in modo eccezionale. Ma cosa succederebbe se, con la fase due, tutti decidessero, o fossero costretti a usare il proprio mezzo privato per spostarsi? Come ne risentirebbe la qualità dell’aria e, quindi, di nuovo, la salute di ognuno? E se questo modello dovesse consolidarsi in una fase tre? E la dispersione territoriale diventasse improvvisamente più attrattiva della nuova polarizzazione urbana degli ultimi anni? Torneremmo a un modello di sviluppo estensivo basato sulla mobilità personale? E cosa sarebbe di tutto l’impegno promosso negli ultimi cinquant’anni per la riduzione del consumo di suolo, per il potenziamento del trasporto pubblico e per la promozione – dalla mobilità all’abitazione – di sistemi di condivisione? Sarebbe questa la nuova normalità?

È solo un esempio, naturalmente, e anche molto parziale. Ma credo sia abbastanza significativo di come la compressione nel privato dettata dal distanziamento sociale non sia solo un problema logistico da affrontare con sistemi di efficientamento. Non basta aumentare lo spazio fra gli scaffali del supermercato, predisporre strutture coperte per le code fuori dagli edifici o ripensare gli spazi domestici per il telelavoro. Bisogna provare a risolverlo, pensando a orientare il dibattito in modi che, adesso, possono sembrare controintuitivi. Perché questa compressione – e uso compressione al posto di riflusso perché non stiamo parlando di valori, ma di pura circoscrizione spaziale – è l’esatto opposto del processo che, negli ultimi anni, ha permesso un miglioramento sostanziale della qualità ambientale dei luoghi in cui viviamo, almeno in media. E il ritorno a un modello di questo tipo rischia di essere davvero critico a lungo termine.

Probabilmente è presto per parlarne, visto che siamo ancora in fase uno e che l’emergenza ha bisogno di tutte le risorse disponibili in questo momento. Guardando, però, oltre l’emergenza, credo che la sfida più grande, dal punto di vista pratico e concettuale, sia quella di trovare il modo di scongiurare, contenere o mitigare una compressione nel privato che, sempre più spesso, viene proposta senza alternative. Come fare, ovviamente non lo so, ma credo sia comunque importante orientare in modo esplicito tutti gli sforzi in questa direzione. Perché è vero che la situazione attuale ci dà modo di pensare a come migliorare le condizioni da cui siamo partiti. Ma il rischio è che, senza un orientamento preciso, si vada verso un netto peggioramento.

 

Cara Task force, dateci prova di ripresa nel cambiamento e non solo di ripresa. Buon lavoro

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Paolo Pileri

Data:

20 Aprile 2020

“Non sarà mai possibile cambiare rotta se non siamo disposti a riconoscere fino in fondo gli errori commessi. Solo ora, sfiniti ma in fondo un po’ più consapevoli di prima, possiamo accettare qualcuno che ci dice di cambiare”. L’appello del prof. Paolo Pileri

Un Paese messo in ginocchio da un virus chiede aiuto a un gruppo di esperti. Mi pare un concetto che non fa una piega. E così è nata la squadra Colao composta da 17 persone e altrettanti curriculum sicuramente di profilo. Ma, ed entro subito nel merito, quale profilo per quale profilo di Paese in futuro? Perché questa rimane nella mia testa la domanda. Mentre l’angoscia per la “fase 2” sta salendo come sale tempestosamente il latte quando bolle, in me sta salendo l’angoscia per vedere garantite quelle diversità di approccio e culturali che, ritengo, abbiamo bisogno più dell’aria non tanto e non solo per ripartire, ma per “durare” e galoppare sul cavallo giusto, quello del cambiamento di approccio.

read-more

Qui non si tratta di rimettere in moto l’auto, ma di farla poi circolare su nuove strade, non quelle di prima semplicemente con una miglior regolazione del minimo. Molti, la maggior parte, dei profili impeccabili della squadra hanno a che fare, almeno così sembra, con un’economia che era quella delle acquisizioni aziendali, delle corporation, delle sedi nei paesi a fiscalità agevolata…insomma di quella che, a mio modesto parere, era un pezzo del problema e non della soluzione. E quindi bisogna fare attenzione. Nulla vieta a tutte quelle persone che conoscono a fondo i meccanismi perversi di una certa economia spavalda e aggressiva di proporci altro e di riuscire a farlo proprio perché conoscono le chiave oscure di quel mondo. Ma devono rassicurarci e darcene prova, altrimenti il beneficio del dissenso, per usare un concetto caro a Martha Nussbaum, non è solo possibile, ma legittimo. È una questione di responsabilità pubblica. La ripartenza di questo Paese deve fare i conti con questioni che non sono state mai in cima all’agenda di certi approcci economici e finanziari. Dobbiamo fare i conti con i cambiamenti climatici (e non vedo nessuno tra i 17 che è un super esperto di questo) e con un Paese che, ed è cosa indiscussa, è considerato da tutto il mondo il regno della Bellezza. Ma, sappiamo bene, che non serve a nulla la Bellezza se non ce ne prendiamo cura, se non la rispettiamo, spesso mettendo da parte la retorica del compromesso (accelerazione al disastro come dice Papa Francesco nell’Enciclica). Solo così potremo, non solo salvaguardarla, ma anche immaginare di generare sana occupazione con Lei al fianco. E quando dico sana dico sana per i lavoratori, sana per l’economia e sana per l’ambiente, senza sconti per nessuno. Però tra loro non vedo esperti in patrimonio culturale, in arte, in turismo sostenibile. In questo lockdown abbiamo visto le acque dei fiumi tornare limpide, l’aria delle città respirabile e i passeri tornare in città. Qualcuno sogghignerà davanti a queste cose, invece per me e non solo per me sono piccoli indicatori di una grande natura che prima era perseguitata da un certo modello di sviluppo aggressivo e che si autoassolveva dietro la necessità di non poter fermare né rallentare il motore degli affari, pena il dissesto economico finanziario (che poi puntualmente è arrivato lo stesso…e quindi era altro a cui bisognava portare attenzione) o che si nascondeva dietro facili etichette di finta o debole sostenibilità che, come prova la realtà che abbiamo sotto il naso, non ha portato nessun cambiamento di approccio culturale nel Paese. Ricordo che per ben due volte sono stati presentati i risultati pessimi dei goal di sostenibilità e per altrettante due volte la reazione delle forze economiche e politiche è stata semplicemente ‘do not disturb’, tipo i cartelli che si mettono fuori dalle porte di hotel. Mi chiedo quindi se la maggioranza di loro (almeno 8) si commuove davanti alle acque limpide del Po al punto da dire, pugni sul tavolo, che la ripresa deve avere un solo colore: verde. Ma verde sul serio. Io non lo so se loro hanno questo chiodo fisso, e chiedo rassicurazioni. Abbiamo un paese piegato dallo spopolamento e dalla disuguaglianza (che non è solo quella di genere, ma anche quella generazionale, ma anche quella di accesso alle conoscenze, ma anche quella di uguale cittadinanza delle tematiche ambientali e sociali dentro quelle economiche e finanziarie, e così via) che giungono da decenni in cui abbiamo mal-trattato un tessuto territoriale già fragile di suo con politiche di malgoverno del territorio e privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita che non hanno eguali in Europa. Abbiamo chiuso uno, se non due, occhi alla corruzione, all’elusione, alla deroga su tutto. Un Paese che ha sistematicamente messo in piedi un’operazione di negazione e svilimento delle sue aree interne e artigiane in nome di un urbanesimo tutto e solo metropolitano, tutto e solo fatto di grandeur, velocità e grandi profitti e rendite (Milano e Lombardia in testa, ahinoi). Abbiamo offeso sistematicamente la ricerca pubblica, la sanità pubblica, le amministrazioni pubbliche dando loro i peggiori epiteti eppure oggi sono loro a salvare il nostro privatizzato Paese dai colpi bassi di un virus, peraltro figlio della globalizzazione (non dimentichiamolo). Abbiamo dato campo a una agricoltura enormemente insostenibile e inquinante in nome di cosa? Abbiamo trasformato le piazze dei nostri comuni in eventi, sagre, parcheggi in nome dell’attrattività e del consumo come se non fossimo capaci di null’altro. Ecco, di tutto questo e di tanto altro che non ho ora lo spazio di elencare vorrei ricevere da quella task force delle rassicurazioni che non ci ricascheremo. Ma non cerco parole di compromesso (altro tema divenuto insopportabile), bensì parole coraggiose e di svolta. Noi dobbiamo riuscire a impostare un futuro nel quale alcune economie terminano il loro corso e altre, davvero sostenibili e civili, si sviluppano prendendo il loro posto. Come vogliamo scacciare il virus e vaccinarci tutti, dobbiamo scacciare il virus dell’insostenibilità e vaccinarci tutti a un modello diverso. E tutto questo deve avere in cima ai pensieri l’ambiente e l’uguaglianza sociale. Dobbiamo riuscire a generare occupazione intelligente con i nostri caratteri, quelli della molecolarità territoriale, della bellezza, del sapere artigiano, dell’ambiente. Dobbiamo riuscire a crescere in attitudine civica e impegno civile. Abbiamo un paese che ha bisogno di manutenzione e messa in sicurezza da decenni e qui possiamo fare economie intelligenti. Abbiamo un paese con un piano energetico non all’altezza delle sfide e qui possiamo fare molto. Abbiamo un paese cannibalizzato dalla frammentazione amministrativa e da una continua confusione di ruoli e competenze e, in questa confusione, a fare le spese sono sempre i più deboli e l’ambiente e il paesaggio. Abbiamo un paese con una politica dei trasporti che ha bisogno di essere ripensata e verso cui le ipotesi che si stanno profilando di ritorno massivo all’auto privata possono solo ucciderlo definitivamente assieme a quel poco di cultura della mobilità sostenibile che eravamo riusciti a generare. Abbiamo un paese che non sa fermare il consumo di suolo e la spesa pubblica che si porta dietro perché pensiamo ancora che cemento = ricchezza. Abbiamo gente che non ha la casa, che vive ai bordi di città dove mancano servizi, manca bellezza, manca civiltà ed è lì che possiamo e dobbiamo agire per primi. Abbiamo un Paese con un’urbanistica allo sfascio e predata dalla speculazione immobiliare e mercantile che ha bisogno di essere ridisegnata perché tutto quello che pensate ha bisogno del territorio. Non c’è solo da ricaricare la batteria per far ripartire un motore che era rimasto fermo per troppo tempo, non c’è solo da rimettere le auto in strada a distanza di sicurezza, c’è da cambiare modello e io chiedo semplicemente a quella task force di dichiararcelo con assoluta chiarezza e coraggio, tranquillizzandoci. Chiedo in fondo di far tesoro degli inciampi del passato per non farli nel futuro, anche se questo, lo so, sarà dolorosissimo per chi è abituato a certi comportamenti e certe visioni. Non sarà mai possibile cambiare rotta se non siamo disposti a riconoscere fino in fondo gli errori commessi: il mio appello è di lavorare a questa presa di coscienza, anche per onorare la loro stessa credibilità. Solo ora, sfiniti ma in fondo un po’ più consapevoli di prima, possiamo accettare qualcuno che ci dice di cambiare. Diversamente tutti torneremo alle faccende di prima e, peggio, ringrazieremo quella stessa economia speculativa che un attimo dopo avremo smesso di riconoscere come il colpevole di un attimo prima. Ci sono tutte le premesse per la sindrome di Stoccolma: noi agli arresti domiciliari che, per paradosso, ci innamoriamo del nostro carceriere. Vi chiedo di darci segnali chiari della vostra sensibilità, della vostra poetica sociale e ambientale e di quale approccio diverso intendete perseguire. Tutto qua. Per il resto, buon lavoro.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

read-less

Articolo pubblicato su www.altreconomia.it il 18 aprile 2020
>> vai al sito

FASE 2: ATTENZIONE AI PIU’ FRAGILI #scuolacondivisa

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Barbara Coppetti

Data:

19 Aprile 2020

Su ogni fronte della contemporaneità, e oggi più che mai, si leva forte e chiara la necessità di cambiamento e aggiornamento della scuola nelle sue componenti fondamentali. Intervenire sull’innovazione della didattica e sul ripensamento del ruolo dell’istituzione scolastica è, come formalizzato nella Legge 107 del 2015 detta Buona Scuola, un’esigenza culturale, politica, economica, educativa e istituzionale. In questi ultimi cinque anni si è attivato un nutrito numero di progetti di ricerca e numerose iniziative di amministrazioni pubbliche, come i concorsi MIUR #scuoleinnovative, la ricerca Indire, i concorsi di rigenerazione o progettazione di plessi scolastici a Torino, Palermo, L’Aquila, Milano, Bolzano ma anche Praga, Locarno, Istanbul… Ci sono stati alcuni importanti convegni e dibattiti sul tema, moltissimi articoli su quotidiani e riviste specializzate. Il comune denominatore rintracciabile in ciascuna di queste iniziative è il bisogno di identità che la scuola italiana ha, per diventare riferimento per la collettività, per connotare il contesto fisico-relazionale in cui si sviluppano i processi educativi. Un bisogno dunque di architettura attraverso un processo progettuale partecipativo che possa far convergere le esigenze della formazione e dell’insegnamento con quelle di tutta la comunità educante, dei ragazzi e delle famiglie, ma anche una scuola aperta, luogo d’incontro capace di accogliere anche la vita e i riti della città. [continua]

read-more

In fase di emergenza sanitaria Covid19, convenzionalmente da giovedì 5 marzo, data del primo Decreto del Presidente del Consiglio e della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, leggiamo quotidianamente articoli da cui si evince l’urgenza di avanzare proposte e soluzioni alle incalzanti difficoltà. Tra i titoli:  “Scuola, un rientro problematico tra distanze e continuità didattica”,“Scuola, le tante criticità del rientro a settembre”, “Scuola, didattica on-line a settembre ma non dobbiamo lasciare nessuno studente indietro”, “Dati, problemi e soluzioni per il distanziamento sociale negli istituti”, “Turni e flessibilità di orario per il distanziamento, didattica mista aula-casa”, Così rendiamo i ragazzi meno motivati” … Il 14 aprile l’intervista di Repubblica e del  Sole 24 ORE ad Andrea Gavosto – direttore di Fondazione Agnelli, promotore del progetto TorinoFaScuola e della ricerca sul patrimonio scolastico in Italia, appena pubblicata nel Rapporto sull’edilizia scolastica – immagina quella che è stata definita la Fase 2, ovvero il rientro a settembre dei bambini e dei ragazzi a scuola. Nonostante il ritardo nell’avvio della didattica digitale – e constatati i pochi effetti prodotti dal Piano Nazionale Scuola Digitale previsto nella riforma Buona Scuola – nelle nostre Primarie, Secondarie e Superiori la reazione a cimentarsi in lezioni on-line ha fatto si che 6,7 milioni di studenti in Italia oggi seguano lezioni in rete.

Il dato che reputo inquietante e su cui vorrei porre l’attenzione è relativo al restante 20% (pari a un milione e 600 mila studenti)  che rischia di rimanere escluso da questa modalità di didattica perché non dispone di devices e connessioni; certamente non ha aiuto o uno stimolo adeguato dalla famiglia, né dai docenti per attivare alternative e magari inizialmente usare lo smartphone. Anche per i più piccoli, per i bambini che sono ai primi anni della Primaria, accedere all’aula virtuale non è così immediato ed è necessario avere la disponibilità dei genitori nell’avviare la connessione e nel procedere in tutti i passaggi durante la lezione. 

Eppure la priorità parrebbe essere quella di dotare di connessione e di tablet il milione e 600 mila studenti non raggiunti dalle lezioni on-line, coinvolgendo gli alunni disabili in progetti mirati e attività specifiche, recuperando i ragazzi dispersi, che probabilmente però hanno lasciato la scuola venendo a mancare l’unico aspetto, quello legato alle relazioni sociali, per cui nutrivano interesse. Tra le criticità oggetto della discussione sulla Fase 2 emerge come nella dimensione delle aule nelle nostre scuole, che di rado superano i 50 mq, sia improprio secondo il principio del distanziamento sociale avere i 25 alunni che mediamente compongono le classi. Trovare allora caso per caso delle forme di turnazione tra lezioni on-line e lezioni in presenza, sarà probabilmente un modo per affrontare un progressivo e parziale rientro a scuola. E di nuovo però per i bambini delle scuole elementari e della scuola materna (e per i loro genitori) sarà arduo l’elemento ritmico, nodale in ambito pedagogico.

Da tempo Umberto Galimberti sostiene che nelle aule delle nostre scuole non dovrebbero esserci oltre 15 alunni per classe. Il suo presupposto però avrebbe l’obiettivo di elevare la qualità della formazione nelle scuole e provvedere al deficit educativo e agli effetti negativi dell’analfabetismo affettivo, di cui genitori e insegnanti, per ragioni diverse, sarebbero responsabili.

Che sia forse questo il momento per avviare la sperimentazione di un cambiamento radicale?   Necessaria però, per Galimberti, anche una riduzione della tecnologia, che non stimolerebbe l’intelligenza emotiva (o educazione socio-emozionale), componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana. Abbracciano questo approccio però decadrebbe l’ipotesi – almeno per Primaria e Secondaria- di avere in alternanza metà classe in presenza e l’altra metà contemporaneamente on-line.

Insomma, la complessità della ricerca e della sperimentazione che coinvolge la sfera della scuola pubblica è alta e ineludibile; in questo momento non ci sono scenari verosimili per la Fase 2. La ricerca DAStU di cui sono responsabile si colloca in questo contesto e assume le nuove condizioni di vita che ci riguardano tutti. “Una scuola condivisa, per una cultura della Felicità” continuerà a proporre interventi di condivisione e rafforzamento della comunità educante e di rinnovamento metodologico-strutturale a partire da una regia partecipata e inclusiva. Il progetto si è strutturato su fondamenti teorici e di intervento sperimentati in presenza e con efficacia in alcuni territori metropolitani dove è stato possibile realizzare un progetto educativo che ha permesso da un lato ai Minori (fascia d’età 5/14 anni) di sperimentare modalità di apprendimento attraverso il coinvolgimento della totalità della loro persona (mente, corpo, emotività) e dall’altro ha consentito ai famigliari di riconoscere nei propri figli (e in loro stessi) talenti e competenze inaspettate. Da queste esperienze è nato, tre anni fa, il desiderio di implementazione metodologica tesa ad arricchire e sperimentare l’innovazione pedagogica in sinergia con il progetto di rigenerazione degli spazi dell’apprendimento. Il progetto dunque, che si propone di sperimentare ed esportare un modo di intervenire nel mondo della Scuola Pubblica affinché essa si trovi nelle condizioni di rispondere concretamente alle esigenze di cambiamento date dalla contemporaneità potenziando il proprio mandato educativo, continuerà ad agire sulla sfera pedagogica, architettonica e sull’azione sociale vivacemente condotta dal terzo settore. E’ però necessaria la rimisurazione degli obiettivi e l’aggiustamento dell’assetto del progetto alla luce della pandemia e delle nuove necessità didattiche. Un impulso ulteriore ad un lavoro nato dal basso, un progetto trasversale visionario ma allo stesso tempo estremamente concreto e reale di trasformazione sensibile tra dentro e fuori la scuola.  

read-less

6 Aprile 2020,  Un coro virtuale di 700 bambini intona “Nessun Dorma”,  emozionante messaggio di speranza e solidarietà. Iniziativa dell’Associazione Musicale Europa InCanto col coro formato da 700 bambini unito virtualmente intonando l’aria dell’opera Turandot di Giacomo Puccini. I bambini che hanno aderito all’iniziativa hanno seguito le indicazioni dell’App “Scuola InCanto” che li ha guidati nell’esecuzione del brano come un karaoke. Ad accompagnare l’esecuzione dei bambini è stata un’orchestra virtuale formata dagli orchestrali di EICO-Europa InCanto Orchestra, diretti dal Maestro Germano Neri

La fragilità dell’affitto (prima, durante e dopo l’emergenza Covid-19) e il punto sulle misure ordinarie e straordinarie

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Marco Peverini

Data:

18 Aprile 2020

La fragilità del settore dell’affitto in Italia, con elevati problemi di affordability e molti sfratti, fa presagire la violenza con cui le conseguenze dell’emergenza rischiano di colpire gli inquilini. Tra le misure adottate dal governo, oltre un temporaneo blocco degli sfratti per alcuni mesi, si propone l’uso di strumenti ordinari (fondi per morosità incolpevole e sostegno alla locazione). L’articolo esamina questi strumenti ordinari, le loro criticità (ordinarie e straordinarie) e riporta le dichiarazioni di alcuni dei principali attori in campo.

>> scarica l’articolo

Covid19 e anziani in Italia: le due facce della “socialità”

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Mina Akhavan, Ilaria Mariotti, Federica Rossi

Data:

17 Aprile 2020

La pandemia da COVID19 colpisce maggiormente gli over 65 (Dowd et al. 2020). Ma perché in Italia ci sono più decessi per coronavirus che in Germania e nel Nord Europa? Un recente studio condotto da Bayer e Kuhn (2020), economisti dell’università di Bonn, argomenta che potrebbe dipendere dal diverso ruolo degli anziani nella società. In Italia, infatti, “gli anziani sono maggiormente integrati nella vita dei più giovani e le dinamiche di scambio sono molto più presenti”. La percentuale delle persone di età media (30-49 anni) che vivono con un genitore nella stessa casa, per esempio, è molto più bassa in Scandinavia e in Germania, rispetto all’Italia che registra una percentuale superiore al 20%, superata soltanto da Cina, Singapore, e Giappone (dati della World Value Survey). Nel 2019, l’Istat ha stimato che in Italia vi erano almeno 6’810 giovani di 18-34 anni, celibi e nubili, che vivevano in famiglia con almeno un genitore. Gli scambi intergenerazionali riguardano anche la frequentazione tra nipoti e nonni, che in Italia rappresentano una risorsa preziosa per le famiglie nella gestione dei bambini in età scolare. Viceversa, se i rapporti con i genitori anziani sono diradati, come succede nel nord Europa, si riducono le occasioni di contagio.

Un aiuto per l’analisi della “socialità” degli anziani nel nostro Paese ci viene dall’indagine campionaria “Aspetti della vita quotidiana”, che fa parte del sistema integrato di Indagini Multiscopo sulle famiglie, avviato a partire dal 1993 dall’ISTAT e dallo studio condotto all’interno del progetto MOBILAGE e che riguarda tre quartieri milanesi (Niguarda-Cà-Granda, Gallaratese e Gratosoglio). 

>>leggi tutto

Epidemie ai tempi del web

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Juno Tani

Data:

16 Aprile 2020

Nei primi giorni (quelli di fine febbraio con Mattia “paziente 1” e Cologno “zona rossa”, per intenderci) sospesi tra “infodemia [1]” ed una pandemia incombente (che a volte pareva più che temuta quasi auspicata [2]) avevo coniato il termine, a dire il vero anche per molti amici criptico, di “pavordemia” (epidemia di paura). Al di là del gioco di parole, un tratto caratterizzante di questa epidemia è proprio la paura, sia questa innata od indotta. Paura della malattia, paura della solitudine e, paura per il futuro individuale e sociale; oltre alle comprensibili incertezze per la perdita delle sicurezze su cui si fonda il “quieto vivere” di ciascuno di noi. La paura però, si sa, è connaturata con l’uomo e senza scomodare le mimiche facciali di Darwin, la psicologia moderna [3] ci dice che sostanzialmente sia un’emozione primaria di difesa ed in quanto tale governata dall’istinto. La natura istintiva delle reazioni collide quindi con una risposta pacata e razionale che è nei fatti l’unica risposta opportuna per metabolizzare una situazione di tipo naturale come è questa epidemia, e, pertanto con la paura la situazione diviene difficilmente governabile con i metodi usuali della politica e della “ragion di stato”. Ciò nonostante per altri fenomeni naturali quali, terremoti, esondazioni e catastrofi assortite, vige una paura latente mitigata da fatalismo ed irresponsabilità. Paura che ha qualcosa di simile a quella per una malattia che, con intensità diverse tra soggetto e soggetto, colpisce e spaventa anche in assenza di sintomi significativi che oggi sappiamo dovremmo definire “paucisintomatici”. Un modo forse adattabile anche alla spontanea reazione all’attuale paura se non fosse che accadimenti di difficile diagnosi l’hanno invece resa grave e virale. Di fronte alle catastrofi, in genere, si sviluppa una paura per così dire circoscritta nello spazio e nel tempo, un timore che dopo l’emergenza scema e si approssima ad una stanca e sgradita abitudine con la quale convivere con una evidente analogia con “picchi” e “plateau” [4]. Di altri accadimenti invece, quali perdite, allontanamenti o infedeltà, viviamo una paura latente ma quasi mai devastante, fatti salvi alcuni casi come nell’ipocondria in cui la paura stessa diviene patologia. Nel caso dell’epidemia di Covid19 invece, assistiamo ad una paura manifesta ed in parte totalmente irrazionale, forse alimentata da ridondanti messaggi mediatici tesi ad esasperarne la portata. Un aspetto questo in parte confermato dal dato di fatto di quei “grandi numeri [5]” di cui sentiamo continuamente parlare, cifre che però si mitigano qualora divengano relative. Si pensi ad esempio al numero dei morti, sicuramente importante, come ci apparirebbe se rapportato alle percentuali annuali di decessi a scala nazionale per altre cause o sul numero di abitanti delle diverse zone geografiche in cui avvengono. Inoltre sempre sui morti, che ahinoi tali restano e poco importa che essi siano “con” o “per” coronavirus e giovani o vecchi, si è costruita una panoplia iconografica del dolore. Lunghe file di bare si incamminano su camion militari con sullo sfondo la “città alta” al tramonto, mentre bancali di urne cinerarie ritornano a Wuhan giusto in tempo per la festa del Qingming [6]. Ma la paura del virus non si conchiude solo attorno alla morte, postula un lungo corollario di potenziali pericoli: virus volanti sul particolato pronti a ghermirti ad ogni tuo respiro, ospedali strapieni incapaci di accogliere e sanare, innocenti fanciulli trasformati in possibili untori agguattati nell’ombra, presi a svolgere il proprio “fagottino dell’unto” e perciò da confinare e, dulcis in fundo, solitudine e dolore in uno stato d’incoscienza disteso prono in un letto d’ospedale circondato da marziani. Un insieme di fattori da togliere il fiato a chiunque, altro tópos questo della malattia: “la fame d’aria”. E di aria ne abbiamo oramai fame un po’ tutti, rinchiusi tra le mura domestiche da giorni con l’unico svago concesso di una lunga e mesta coda al supermercato. L’aspetto più evidente di questa epifania epidemica è la condizione di limitazione dei contatti e segregazione domestica in cui per molti, ma non tutti [7], la rete web diviene canale preferenziale per lo scambio di informazioni.  Però basta aprire una finestra sul web alla ricerca di conforto e rassicurazioni che di nuovo la paura ti assale e l’angoscia dilaga, solo appena mitigata da pagine, siti o gruppi di discussione che la vogliono blandire con le ragioni della scienza; dunque assai interessante diventa in un web ammorbato il già complesso rapporto tra scienza e paura. Nel quale, dicendola con Paolo Blasi, si osserva “una convinzione molto diffusa che ciò che è naturale è buono e ciò che è artificiale è cattivo, convinzione che è spesso causa di sospetto se non di ripulsa di ciò che la scienza può produrre.” Anche se questa volta la partita pare giocata a ruoli invertiti, con una natura matrigna cattiva che ci manda il virus, cosa che pare acclarata anche se tra molte polemiche, e la scienza eroico baluardo erto in nostra difesa sino all’estremo sacrificio e sin che durerà tale convinzione; in realtà questa visione pare già scemata vista la necessità di legiferare uno “scudo” per l’operato dei sanitari sul campo. Ad un lucido pensiero fondato sui criteri della razionalità si antepone quindi “il razionale [8]” parola top del momento che soppianta in un sol colpo: resilienza, rarefazione e droplet. Una razionalità solo conclamata e dunque divenuta in un sol colpo feticcio e simulacro di un pensiero positivo e, si badi bene, positivo ma non positivista [9]. Grazie al “razionale” ogni ipotesi di cura, ogni sobbalzo negli andamenti “logistici [10]” dei contagi, ogni variabile nell’ormai palese universo virologico è sdoganata da epidemiologi da tastiera e provocatori prezzolati che “chattano” appellandosi entrambi, ovviamente, al “razionale”. Il bello della condivisione nel web della paura indotta dall’epidemia sta nel fatto che a dare risposte e conforto vi sia un profilo il più delle volte a dir poco improbabile. Condividere dunque con un alias, spesso mal camuffato, malintese nozioni sanitarie o interpretazioni estemporanee di studi o trial clinici ci fa credere di aver un controllo, tutto da dimostrare anche a noi stessi, della situazione. In questa apparente compagnia passano le giornate e l’angoscia si stempera, superando le barriere dello spazio: Aosta è idealmente vicino a Catania, e del tempo: anziani e giovani si trovano accomunati in una esperienza comune ma in modi diversi ma ciò dallo schermo a fatica traspare. Però al contempo la rete diviene quasi un “grande microscopio” con cui analizzare l’evolversi degli eventi e delle combinazioni che questi producono sia sul corpo sano che malato della società. L’epidemia vista dal web, anche alla luce dei comportamenti sociali che questo propone, ci presenta aspetti altrimenti impercettibili come il bisogno di certezze anche a prezzo di pesanti rinunce alle proprie libertà e, l’incapacità di sviluppare una visione panottica dei fenomeni, tutti concentrati sui nostri interessi o passioni. Si pensi a tale proposito ai rimedi naturali o all’inquinamento in cui alcuni vedono panacea di questo ed ogni altro male o causa di quasi tutte le disgrazie che affliggono la specie umana in questa epoca. Siamo dunque portati a leggere gli eventi anteponendo tali miopie alla corretta visione della realtà dei fatti ed anche se ciò fosse in linea di principio plausibile, pare evidente che la natura e l’evoluzione del virus con le sue inevitabili conseguenze segue leggi imperscrutabili che potranno essere definite e combattute solo con una soluzione razionale ed olistica costruita nel tempo. Sempre nella rete si incontra inoltre una incredibile commedia umana, di boccaccesca memoria [11]. Soggetti curiosi su cui primeggia per numero di post e  re-post “l’impanicat* senziente”, giovane di mezza età spesso in carriera che teme il male presente ed attende al futuro; “l* scientist*”, che idolatra la scienza in attesa di una sinecura; “un* giovane studios*” che compulsa dati producendo previsioni sempre più performanti  sulle quali battibecca con due categorie assai diffuse: “me l’ha detto mio cugino” colui che asserisce certezze che nemmeno comprende e, “la casalinga di Bagnone“ che chiede ma non vuole sapere. A questa galleria del generone web si aggiungono personaggi politicamente orientati e perciò, a loro dire, informati per antonomasia e consapevoli a prescindere: “meme militante”, “la staffetta del contagio”; “prima il noi” “mascherina rossa” ed “il devot* del vairus” oltre ad una svariata genia di para-scienziati con l’aurea degli intellettuali da parafarmacia a cui fanno il controcanto i faziosi da “bar sport”. Cosa chiedere di più per ovviare al tedio di un mezzo pomeriggio forzatamente ozioso? È dunque giunto il momento di formulare due possibili prospettive per la ricerca ed una conclusione seppur provvisoria. La prima dovrà considerare le fragilità umane (analiticamente e nel loro insieme) quale vettore di un potenziale contagio dell’irrazionalità insidioso agente, questa, nelle scelte di merito e di metodo per le soluzioni delle crisi (quali che esse siano) con le ovvie conseguenze sulle scelte di politica sociale ed azione locale. L’altra invece traguarda la natura stessa della rete che si dimostra ogni giorno di più un potente deflettore della realtà dei fatti verso meta narrazioni variamente orientate, seppur “ad personam[12]”. Un aspetto questo connesso ai flussi dell’informazione che attraversa tutti i media, ma nel web assume caratteri di maggior potenza perché diviene assai difficile da cogliere, rilevare ed analizzare nella sua poliedrica mutevolezza; caratteristica questa che abbiamo scoperto parente stretta della proteasi virale pronta ad incattivire il virus ad ogni contatto con gli umani. Per ricondurre questa ultima considerazione ai temi del blog e delle fragilità territoriali invece, nell’analisi condotta con metodi assai approssimativi di osservazione partecipante [13], già emergono fattori di fragilità di gruppo, distorsive convinzioni culturali e politiche, gap dovuti alla localizzazione geografica dei soggetti ed all’età. Al netto delle umane fragilità, si riscontrano al contempo elementi facilmente riconducibili al “digital divide”, alle differenze territoriali, alle affezioni di campanile e, cosa che accomuna un po’ tutti, all’inconsapevolezza che il web è oramai un modo parallelo che vive di dinamiche proprie con caratteristiche ben oltre alle convenienze e convivenze sociali in uso nel mondo reale, forse perché chi vi partecipa si ritiene protetto dall’immaterialità dell’anonimato e della distanza o da un qualche portentoso “antivirus”. Come conclusione provvisoria mi viene invece da dire che seguendo assiduamente l’epidemia su Facebook alla fine si scopre che c’è sempre qualcuno che, sotto sotto ed in un modo o nell’altro, spera che il virus ci ammazzerà tutti! Quasi postmoderno profeta del “memento mori” [14].

 

—————————————
[1] Alberto Contri su Avvenire del 4 marzo 2020: “la chiamano infodemia. Il sovraccarico di notizie vere, incerte, false.”

[2] Tra i tanti anche i costanti riferimenti ai cosiddetti “Pandemic bond“, una sorta di “assicurazione al contrario” che la Banca Mondiale ha stipulato con gli investitori nel 2017 scommettendo di fatto su di una possibile pandemia.

[3] Galimberti U., Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2006

[4] Valori assunti ad indicatore dell’andamento epidemiologico e della sua fase di culmine.

[5] Valori assoluti del numero giornaliero e totale di contagi, ricoveri, pazienti in rianimazione e decessi.

[6] O, “Giorno della Pulizia delle Tombe”, che cade il 5 aprile. Si tratta di una festa nazionale in cui i cinesi ricordano i propri avi, nei luoghi in cui sono morti pulendo le tombe ed offrendo cibo.

[7] Digital divide tecnologico e di connessione, disponibilità di mezzi, abilità nell’uso e, potenza o costanza della rete.

[8] Nella ricerca medica Il “razionale” di uno studio, farmacologico, epidemiologico o clinico prevede l’identificazione di un’ipotesi sperimentale che deve essere verificata (o smentita) dalle strategie che vengono poste in essere.

[9] Un atteggiamento positivista consiglierebbe atteggiamenti cauti e misurati mentre sia assiste, anche da parte della scienza, ad un’affermazione apodittica del reale in opposizione al chimerico della “fake news”

[10] In statistica ed in econometria, il modello “logit”, noto anche come modello logistico o regressione logistica, è un modello di regressione non lineare utilizzato quando la variabile dipendente è di tipo dicotomico. _Wikipedia.

[11] Il Decameron viene detto commedia umana perché Boccaccio, sceglie di raccontare la realtà dell’uomo cosi come essa è, rappresentandolo in commedia con personaggi tratti dalla vita quotidiana di quel tempo, a differenza della dantesca “divina”.

[12] In ragione della “profilazione” degli account che operano i motori di ricerca e molti siti web.

[13] Il più elementare ma non per questo meno efficace metodo di analisi sociologica.

[14] motto dei frati trappisti che nel web può essere abbreviato in “memento homo” o nella forma gergale, “stai all’ occhio”.

Musei locali e fragilità

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Elena Montanari

Data:

16 Aprile 2020

L’espressione “musei locali” raccoglie diversi tipi di istituzione museale – ecomusei, musei diffusi, piccoli musei civici ed etno-antropologici, e strutture a servizio di luoghi di memoria o di interesse culturale – accomunate dallo speciale radicamento a un luogo, da una ridotta dimensione gestionale e da una missione orientata alla valorizzazione dei patrimoni e delle identità territoriali. In Italia queste istituzioni rappresentano una percentuale cospicua del settore museale (di cui costituiscono una porzione ampiamente superiore alla metà, secondo i risultati dell’indagine ISTAT “L’Italia dei musei 2018”) e, per il loro carattere diffuso, sono una componente peculiare del sistema culturale nazionale.

Benchè svolgano un ruolo importante – come presidio e strumento di accesso all’estesa ricchezza di beni, memorie e identità –, da tempo queste strutture vivono una condizione di particolare difficoltà, dovuta all’insufficienza di risorse e ai conseguenti limiti operativi, al progressivo depauperamento delle dotazioni di personale (tanto che diverse strutture rimangono minimamente fruibili solo grazie al coinvolgimento attivo dell’associazionismo locale) e a vari ostacoli normativi. Nel corso degli ultimi vent’anni, molti musei locali hanno subito una significativa revisione gestionale (che in alcuni casi ha assimilato la direzione amministrativa e quella scientifica) e una forte riduzione dei servizi accessori, che li hanno spesso ridotti a meri “depositi” e talvolta ne hanno provocato la chiusura.

È facile immaginare che l’epidemia in corso acuirà queste difficoltà. Nella situazione presente tutti i musei sono vulnerabili e, come già annunciano enti internazionali quali ICOM e American Alliance of Museums, è possibile che molti non saranno in grado di riaprire. I piccoli musei locali, già gravemente sottofinanziati, sono forse quelli più esposti al rischio di “congelamento” o scomparsa. Le avvisaglie di questo rischio si possono leggere per esempio nella limitata reattività della maggior parte di queste strutture durante l’emergenza – in particolare nella gestione dei progetti digitali. Come in altri settori, oggi questi rappresentano il principale campo d’azione (e strumento di “resistenza”) per le istituzioni culturali, ed è plausibile immaginare che continueranno a svolgere una funzione importante nell’immediato futuro. Questa ipotesi implica il potenziamento del ruolo delle ICT e lo sviluppo di nuovi programmi (auspicabilmente basati sull’interazione tra onsite e online) che potrebbero gradualmente avviare un significativo aggiornamento delle pratiche di comunicazione, esposizione e ricerca museale. Alle soglie di quello che sembra preannunciarsi come il “quinto tempo” dei musei – che succede al “quarto tempo” che Luca Basso Peressut aveva segnalato all’inizio del nuovo millennio, facendo seguito al “terzo tempo” annunciato da Franco Albini nel secondo dopoguerra –, molte strutture locali non sembrano pronte a superare questo passaggio evolutivo. Queste istituzioni spesso registrano un forte ritardo nell’implementazione di pratiche e strumenti digitali, non solo nella catalogazione del proprio patrimonio, ma anche nell’attivazione di nuovi canali di comunicazione – considerando che, secondo i dati ISTAT, poco più della metà dei musei italiani ha un account sui più importanti social media (53,4%) e un sito web dedicato (51,1%). Anche se questa emergenza potrebbe aver provocato una variazione di questi dati (perché in queste settimane alcune strutture potrebbero avere attivato nuovi strumenti, che stanno gestendo con un’ammirevole buona volontà e una certa dose di improvvisazione), i musei locali sembrano soffrire di una sorta di digital divide rispetto alle grandi istituzioni, generato dalle limitate risorse per l’acquisto, la manutenzione e la gestione di nuove tecnologie dell’informazione, ma anche dalle difficoltà nell’acquisizione delle competenze necessarie per svolgere questi progetti in modo professionale, e nello sviluppo di programmi speciali per alcuni tipi di patrimonio diffuso. Certamente questo limite non è il principale problema delle piccole istituzioni, tuttavia supportarle nel potenziare la propria presenza nel mondo digitale non solo consentirebbe a molte strutture che ora sono “mute” di ritrovare una voce, ma potrebbe anche contribuire a riconfigurare il concetto di “locale”. Le nuove tecnologie infatti hanno la capacità di proiettare il lavoro culturale in una dimensione globale, in cui certe distanze sono annullate, e ciò che era remoto o inaccessibile può essere integrato in una rete aperta e diffusa.

Quella dell’aggregazione dei piccoli musei in più o meno ampi sistemi, poli e circuiti, organizzati da logiche infrastrutturali di natura geografica e/o tematica, era già da tempo stata individuata come strategia d’intervento preferenziale per queste istituzioni. Le ipotesi che si possono fare nella situazione attuale confermano la validità di questa opzione e, sfruttando le possibilità offerte dai mezzi digitali, ne ampliano la scala e la portata. La costruzione di sinergie tra musei e tra questi ed altre istituzioni culturali (biblioteche, archivi, scuole, istituti di ricerca) è infatti una direzione di cui è facile immaginare l’utilità nel futuro che stiamo cercando di ri-progettare. E in questo scenario, prevedendo che nei prossimi mesi la mobilità rimarrà limitata, i musei locali potrebbero essere investiti di un nuovo ruolo: la loro prossimità ai territori e alle comunità di riferimento potrebbe fornire le condizioni per trasformali nei punti di accesso a un sistema museale integrato e multi-scalare, da costruire attraverso nuove relazioni e collaborazioni tra diversi enti, programmi, discipline e geografie.

L’ipotesi che questa emergenza produca una riconfigurazione del ruolo del tessuto locale in termini culturali, sociali ed economici potrebbe avviare un ripensamento del valore e delle funzioni delle istituzioni a servizio del territorio. Sebbene in questo momento tale missione non sia prioritaria, è importante iniziare subito una progettazione strategica che tenga in considerazione queste potenzialità – che, da soli, i piccoli musei non possono mettere a frutto – e che immagini ad ampia scala il contributo costruttivo dell’istituzione museale in questo momento storico. In fondo, come riportava il calendario degli eventi che il Museo Guatelli avrebbe dovuto inaugurare in questo periodo,a cosa serve un museo, se non ad immaginare un futuro?

Covid-19: è necessario elaborare politiche differenziate nei diversi territori e guardare diversamente al Sud Italia

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Alessandro Coppola, Francesco Curci, Arturo Lanzani

Data:

16 Aprile 2020

La crisi epidemica nella quale siamo immersi ha molto a che fare con le geografie del Paese, o più precisamente con la scala alla quale si costruiscono le geografie dell’azione pubblica. In queste lunghe settimane di emergenza l’orientamento dello Stato si è dimostrato, da questo punto di vista, ondivago. La crisi è stata prima localizzata, poi nazionalizzata, poi ancora rilocalizzata sebbene in diversa forma. I difficili rapporti fra i vari livelli di governo – e la loro politicizzazione, come nel caso dello scontro permanente fra Lombardia e Governo nazionale – hanno condotto a gestioni non ottimali di problemi che avevano bisogno di essere identificati, per l’appunto, alla giusta scala.

In una prima fase, il Governo ha mostrato un approccio molto attento alla variabilità territoriale del fenomeno, con l’individuazione delle prime zone di contenimento che ricomprendevano un numero limitatissimo di comuni. Queste delimitazioni hanno mostrato, stando agli esperti, grande efficacia mentre la loro mancata istituzione altrove – come nel caso della Bergamasca – ha determinato effetti catastrofici. Laddove vi è stata convergenza fra i diversi livelli di governo, o più precisamente dove c’è stata una coerente “posizione territoriale” che ha spinto lo Stato ad agire, è stata individuata la geografia più adatta a contenere l’epidemia e a proteggere la salute. Dove invece – anche sotto la potente pressione di interessi imprenditoriali – questa ponderatezza geografica dell’azione pubblica è stata elusa, gli esiti sono stati problematici.

Successivamente, e per brevissimo tempo, si è profilata una politica articolata in tre zone con un utile dettaglio a livello provinciale (ricordiamo che ad esempio nelle Marche le criticità si sono concentrate nella sola Provincia di Pesaro e Urbino). Un approccio, questo, superato rapidamente con l’estensione delle stringenti misure di distanziamento sociale a tutto il territorio nazionale – l’obbligo di rimanere in casa, di non frequentare spazi pubblici ancorché isolati, e soprattutto la chiusura di molte attività e aziende – lasciando di fatto alle regioni alcune possibilità di modulazione di questi indirizzi. Alla base di tale scelta la necessità di impedire il dilagare dell’epidemia in altre regioni. Particolare preoccupazione ha destato il rischio di una crescita massiccia dei contagi nelle regioni del Centro-Sud dove, come è noto, i sistemi sanitari presentato maggiori criticità. Se tali ragioni erano del tutto evidenti e comprensibili all’inizio dell’escalation, col progressivo avanzare della crisi la persistenza di restrizioni generalizzate appare sempre meno opportuna. A oltre un mese dal decreto che ha drasticamente ridotto la mobilità interna al territorio italiano siamo di fronte a un Paese che funziona in larga parte per aree non comunicanti e con livelli di rischio sanitario molto differenziato, circostanza che forse giustificherebbe politiche altrettanto differenziate.

read-more

Discorso simile può essere fatto riguardo la regolazione dei settori produttivi, ovvero ragionando sul senso della loro ripartenza su base territoriale invece che per categorie economiche. Tale prospettiva però si scontra con quanto abbiamo osservato nelle ultime settimane. Infatti, sebbene il principale oggetto del contendere fosse il destino dell’industria del Nord e in particolare di quella lombarda, il Governo ha preferito “nazionalizzare” e quindi “settorializzare” la gestione del problema. Circostanza che è forse dipesa dal bisogno di dare risposte immediate all’opinione pubblica, dal timore di uno scontro frontale con gli interessi imprenditoriali e dalla assoluta genericità delle posizioni regionali. Tuttavia, così facendo, si è intervenuti sulla base di categorie difficili da leggere sul territorio, lasciando ai prefetti gran parte del potere effettivo – attraverso il potere di deroga – secondo un meccanismo invalso di genericità dei provvedimenti legislativi e discrezionalità nella loro applicazione. Con il paradosso che in Lombardia, dove si concentra il 53% dei deceduti, è attiva – come diverse fonti sembrano confermare – anche attraverso il dispositivo delle autocertificazioni, una percentuale di imprese maggiore di quelle di molte regioni del Mezzogiorno che presentano i valori minimi di deceduti per abitanti.

Immaginando che crisi simili possano ripetersi in futuro, è lecito chiedersi se un approccio più territorializzato e fondato su forme più intense di dialogo sociale – e quindi su quantità e qualità molto superiori di informazione circa le situazioni concrete – non possano produrre risultati migliori, sia dal punto di vista della protezione del bene primario – la salute delle lavoratrici e dei lavoratori – sia da quello della preservazione di parte dell’attività economica laddove ve ne siano i presupposti. È evidente che nella gestione di una crisi il fattore tempo è decisivo, ed è proprio per questo che il livello di informazioni e conoscenze pregresse disponibili al momento del suo irrompere lo è altrettanto: una parte importante della qualità di queste decisioni dipende dal quanto conosciamo – e nello specifico, dal quanto le istituzioni conoscono – i nostri tessuti produttivi entro e in relazione ai diversi sistemi insediativi e socio-territoriali italiani.

Guardando alla cosiddetta “Fase 2”, e ammesso che non vi sarà il bisogno anche di una terza fase, la questione della geografia appare egualmente essenziale. Ciò che sicuramente possiamo dire è che i dati ufficiali, ma anche le stime su contagi e mortalità reali, presentano un quadro radicalmente differenziato per regioni e province, per valori assoluti e per valori percentuali di positivi, ospedalizzati, guariti e deceduti. Guardando le tabelle e la figura che alleghiamo, è del tutto evidente quanto una discussione sulla Fase 2 focalizzata sui soli settori d’impresa non sia esaustiva, e quanto ci sia bisogno di ragionare egualmente sui territori in cui, per primi, può esserci una lenta ripartenza. C’è da chiedersi, per esempio, quanto sia opportuno che i cantieri della linea metropolitana M4 di Milano ripartano con masse di operai edili bergamaschi e che le imprese e i cantieri di molte regioni del Centro-Sud rimangano invece chiusi per la volontà di un governatore. Per quanto ancora si potrà continuare nella difficile politica di costrizioni e divieti per tutti i cittadini in condizioni territoriali diversissime per diffusione del virus e per densità abitativa?

Non sta a noi dire quando alcune attività potranno ripartire né quando alcune restrizioni potranno essere attenuate o rimosse. Ciò che vogliamo sottolineare è che la ripartenza non dovrà avvenire in modo uniforme e neppure sulla base della mera discrezionalità dei governatori regionali. L’uniformità formale di indirizzi, come sempre accade e come sta già avvenendo nella Fase 1, non farà che esacerbare la diseguaglianza sostanziale nella difesa della salute dei cittadini – giustamente considerata obiettivo primario dell’azione governativa – e l’inefficacia della ripartizione spaziale dei sussidi alle imprese e alle persone.

D’altra parte, una partenza differenziata non sarebbe priva di significati economici politici e culturali per promuovere una maggiore coesione socio-territoriale del paese. Come segnalato dallo stesso Svimez, la drammatica situazione sanitaria e la più lenta ripartenza di buona parte del Nord Italia può essere mitigata da una maggiore mobilitazione produttiva del Centro-Sud. Sebbene si tratti di un’ipotesi tutta da verificare nella sua fattibilità concreta, il Mezzogiorno in questa fase potrebbe dare un contributo più significativo alla produzione del reddito nazionale ed essere traino di una possibile ripresa economica.

Se è vero che questa è una grande crisi globale e che l’intero Paese è mobilitato per fronteggiarne gli effetti su scala nazionale, è egualmente vero che non tutti i territori vi partecipano in modo eguale. Ora che la crisi si inscrive nel medio periodo, non accorgersene sarebbe un grave errore.

read-less