Post-pandemia: ridefinire la qualità della vita per una nuova interiorità

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Marco Borsotti

Data:

15 Aprile 2020

«… mi insinuavo lentissimamente in strati progressivi di collera e frustrazione, astio e incolpamento. Miseria, disoccupazione, casa, salute, assistenza agli anziani, istruzione, sicurezza, razzismo, problemi di genere, clima, pari opportunità: ogni vecchia questione della vita sociale restava irrisolta, a giudicare dal coro di voci come da striscioni, cartelli, magliette. Come dubitarne? Un’immagine protesa per ottenere qualcosa di meglio». Leggo queste righe nell’ultimo romanzo, Macchine come me, di Ian McEwan (che è anche l’ultimo libro che il Covid-19 mi ha concesso di acquistare, prima che su tutte le umane attività non di prima necessità si abbattesse, necessariamente, il lockdown) e mi chiedo se l’immagine che evocano sia il passato o il futuro.

Mentre sempre più voci ci dicono che nulla sarà più come prima, infatti, la domanda è se poi, una volta passata la paura, collante sociale potente, in realtà non tornerà tutto come prima, o quasi.

Perché dovrebbe essere tutto diverso? Certo, molti di noi non ce l’avranno fatta e il vuoto della loro assenza sarà incolmabile, mentre altri ancora di noi saranno più poveri di prima o saranno nuovi poveri e questa condizione drammatica andrà a consolidare quanto, nella sostanza, accadeva già prima, in un mondo dove abbiamo accettato che l’1% della popolazione mondiale possieda circa il 50% della ricchezza del pianeta (secondo l’ottava edizione del Global Wealth Report del Credit Suisse).

Quindi nulla sarà più come prima semplicemente perché la pandemia avrà modificato ancora in peggio l’equilibrio economico-politico del mondo? Oppure perché ci avrà dato l’opportunità di riflettere, di pretendere e imporre regole del gioco nuove, più sostenibili, più eque?

Veramente possiamo sperare che, per la prima volta nella storia umana, dal disastro emerga una società migliore, dove vorremo e sapremo tagliare con il passato e instaureremo rapporti migliori con la natura, i nostri prossimi e noi stessi?

Sapremo allora, finalmente pretendere stipendi non decorosi, ma anzi generosi per i medici e gli infermieri del servizio pubblico, che oggi sono i nostri angeli e fino a pochi giorni venivano aggrediti nei pronto soccorso per futili motivi; lo faremo per coloro che hanno sanificato ospedali e strade e noi chiusi in casa neppure li abbiamo visti, per i riders che ci hanno portato la pizza riciclando per giorni la stessa mascherina, per i cassieri e i poliziotti, per quelli che hanno tirato la cintura e rispettato le file?

E noi architetti? Torneremo a discutere, a fare infinite analisi e raccolte di casi studio e proiezioni e diagrammi o avremo la forza di affermare che il nostro è semplice e concreto mestiere del “fare” e non solo del dare “visioni” e quindi sapremo imporre nuovi termini di discussione, immediatamente legati alla concretezza del mettere in atto? Un “fare” sensibile, dove la qualità non può essere oggetto di contrattazione o bene superfluo, perché genera poesia e quindi bellezza e queste sono qualità necessarie alla vita. Pretenderemo dunque di essere tra quelli che agiscono, realizzando nei piccoli e nei grandi progetti forme innovative di abitabilità – perché questo è il nostro mandato: rendere il mondo abitabile?

Mi sorprendono i molti colleghi che oggi, nella costrizione contingente e brutale dell’#iorestoacasa, proprio quest’ultima riscoprono e pronunciano anche quella parola, interni, che nella normalità hanno scordato o relegato ai margini del pensiero.

L’isolamento, il confinamento (perché questo vuol dire lockdown), paradossalmente ci ricorda che l’architettura è questione di resa abitabile dello spazio e che abitare è stato, ai nostri primordi, l’atto di dotarsi di un rifugio, di un luogo sicuro in cui rintanarsi. Per questo è paradossale la riscoperta dello spazio interno ora. L’interno è sempre stato l’esigenza primaria: il conformare un habitat, condizione esistenziale del vivere e fortunatamente, nell’evoluzione della specie, non più esclusivamente del sopravvivere. Allora sono d’accordo con Massimo Cacciari quando afferma «Lasciate stare le puttanate che raccontano i nani e i ballerini della televisione. Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno» (Huffingtonpost, 05/04/2020)

Perché questo è il momento in cui siamo ‘costretti’ a casa, in cui occupiamo costantemente il nostro stesso spazio primario perché è un virus che ce lo impone. Sono i giorni in cui «…soltanto dall’interno possiamo avvicinarci gli uni agli altri – e la finestra a cui si affaccia la nostra “interiorità” sono gli occhi». (Slavoj Žižek, Virus) Dunque abitiamo sotto costrizione e solo in questa condizione riscopriamo l’abitare stesso, il senso dei nostri interni, la capacità di adattarli e reinventarli, di trasformarli e riattrezzarli, facendoli diventare uffici, aule di scuola, luoghi per lo sport, la musica, la lettura, lo svago: estensioni del nostro pensiero e delle nostre attitudini?

L’interno è il “componente principale del progetto” (Achille Castiglioni insegna) di architettura e ciò che sta al principio delle cose non può mai essere negletto perché ne costituisce il fondamento: l’abitabilità dello spazio deve essere sempre la componente principale delle nostre intenzioni. Prima dell’emergenza, prima della contingenza. Nella quotidianità.

Proprio dalle nostre case, dal nostro principio personale di abitabilità, oggi dobbiamo affrontare la sfida della pandemia come una chiamata definitiva alla ridefinizione della qualità della vita. Un principio utopico? Sicuramente, ma di fronte a un sistema socio-politico collettivo che non ha saputo evidentemente reggere quest’urto, forse abbiamo bisogno di due vaccini: uno per il corpo e l’altro, una nuova Utopia, per la mente.

Perché questa contingenza drammatica non è soltanto un evento da non dimenticare: «Una memoria che tutto conserva in fondo non conserva nulla» (Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute). Il mero non dimenticare deve essere sovvertito in un atto di ripensamento profondo, nobilitando l’azione del ricordo con il ricordo dell’azione. Come ha scritto Alessandro Baricco «Ora dobbiamo passare ad altro: pensare, capire, leggere il caos e prenderci il rischio di dare a tutti qualche certezza: questo è il mestiere degli intellettuali. (…) Dobbiamo passare all’audacia». (La Repubblica, 26/03/2020). Altrimenti l’alternativa, insostenibile, sarà quella di insinuarsi lentissimamente tra quegli strati di collera descritti da McEwan.

«Non si ritorna alla normalità, la nuova “normalità” dovrà essere ricostruita sulle macerie della vita di una volta, oppure ci ritroveremo in una nuova barbarie di cui già si scorgono distintamente le prime avvisaglie. (…) dovremo sollevare la domanda: che cosa proprio non va nel nostro sistema (…) Dare una risposta a questa domanda richiederà molto di più che nuove forme di assistenza sanitaria globale». (Slavoj Žižek, Virus)

Moltissimi sono gli squarci apertisi nella nostra quotidianità del sociale. Varchi in cui spingere profondamente il nostro pensiero. Siamo chiamati a ridisegnare molte delle nostre forme di socialità, a reinventare il nostro nomadismo, a rivedere i termini del fornire assistenza, a ridiscutere la finalità del nostro insegnare…

Provo ad annotare dei dualismi, proponendoli a tutti noi come luoghi di riflessione, spazi mentali da rendere abitabili con nuove utopie, istanze di cambiamento.

disponibilità di tempo vs disponibilità di consumi

(anche ora che le professionalità realmente utili si sono rivelate, ancora l’efficienza si commisura esclusivamente sul mero guadagno?)

lavori produttivi vs lavori burla

(questi ultimi nell’accezione che ne dà Rutger Bregman in Utopia per realisti; ovvero del drastico ridimensionamento delle competenze basate sul monetizzare il niente)

nanismo vs gigantismo

(è realmente sano e necessario che prevalga il principio della winner-take all society, che fa tabula rasa delle realtà più piccole, che tutto monopolizza e livella, annullando la diversità come ricchezza reale?)

didattica dei valori vs didattica delle competenze

(è ancora plausibile idealizzare forme di conoscenza ottimizzate per il mercato del lavoro e non per il mercato della vita, ovvero l’architetto e l’ingegnere – giusto per fare un esempio a caso – sono puri ‘tecnocrati’ o anche etica, filosofia, arte sono le loro pietre angolari?)

silenzio vs rumore

(strade meno affollate, traffico azzerato, canali e mari più lipidi; ovvero della necessità di nuove dinamiche d’uso di ogni scala abitabile, a partire da quella estesa del pianeta)

comunicazione vs rumore di fondo

(l’emergenza ha richiesto forme differenti di comunicazione, con livelli diversificati d’urgenza, mentre la distanza sociale ci ha sottratto i potenti mezzi della linguistica corporale e di prossimità, dandoci in cambio quella traslata delle tecnologie, ma anche nel prossimo futuro le modalità di erogazione dei contenuti sono destinate a riassettarsi secondo modalità ibride e innovative)

individualità vs collettività

(distanziamento sociale: oggi un obbligo sanitario, morale e legale, ma domani? Quanto inciderà sulla condizione dei nostri spazi, che forse solo oggi comprendiamo appieno nel loro essere stati strutturati per una presenza collettiva massiccia, perfino indiscriminata, con tutte le bellezze e gli squilibri che ne sono conseguiti e che oggi potrebbero essere riconformati?)

– fragilità vs robustezza (da tempo ormai indaghiamo le fragilità – come architetti soprattutto quelle territoriali –, ma oggi, forse, dovremmo ribaltare il paradigma ed esplorare le supposte ‘robustezze’ dei nostri sistemi di vita, giacché da un lato è evidente che molte di esse hanno ceduto e dall’altro, adesso un concetto ben più esteso di ‘fragilità’ ci coinvolgerà tutti, rendendo quest’ultima un paradigma del quotidiano (da cui il ridisegno delle abitudini, delle tempistiche, degli scambi e soprattutto dei ‘luoghi’).

«I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c’è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla». (Alessandro Baricco, La Repubblica, 26/03/2020)

Rappresentazioni della peste

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Claudio Umberto Comi

Data:

14 Aprile 2020

Come ci rappresentano e ci rappresentiamo un’epidemia

In questi giorni di confino coatto, in cui emozioni e privazioni collidono ed il senso civico litiga con gli aneliti di libertà ed in cui ciascuno vive un suo personalissimo travaglio, solo in parte mitigato da forme di “lavoro leggero”, letture evasive a cui seguono riflessioni solinghe e conversazioni virtuali, viene facile interrogarsi come nel passato siano state vissute le fasi epidemiche.

Certo è che i canali di informazione del passato remoto sono pochi. Alcuni di genere storico descrivono puntigliosamente ma non rappresentano, altri letterari o favolistici raccontano ma non documentano ed altri ancora che definirei “artistici” propongono, a secondo dei tempi e degli stili, immagini redatte con caratteri didattici, drammatici o trionfalistici. Nel passato più prossimo invece la fotografia ha preso il posto della figurazione pittorica e ci ha raccontato come sa, o forse come pareva opportuno, i fatti e gli eventi.

In questa epidemia presente, invece i diversi “media” hanno ormai consacrato un’iconografia del dolore che si crogiola tra camion militari al tramonto e file di bare allineate; infermiere sfinite, malate, e poi risanate o reparti ospedalieri “in flou”, dove una umanità dolente vive il suo dramma in totale isolamento; quanta angosciosa raffigurazione pare accompagnare questa “peste postmoderna” e quali ne saranno mai le ragioni?

Viene quindi naturale provare a far correre la memoria verso l’iconografia più antica. Si pensi quindi al “Trionfo della morte” di Pieter Bruegel il Vecchio nel quale defunti schierati come milizie, monatti e becchini irrompono nella quotidianità della vita, creando scompiglio e, per l’appunto, morte. Immaginandoci gli spettatori del tempo, laboriosi mercanti ed oculati banchieri in un paese ispirato da logiche e pratiche calviniste e luterane ed un senso pragmatico forse innato, che oggi ci osteggia. Viene dunque facile pensare che la funzione primaria del dipinto fosse adeguatamente raggiunta anche a prezzo di rinunciare a drammatizzazioni estreme, e le numerose copie lo derubricano quasi, ad un “albo a fumetti”.

E come può la mente non correre all’affresco raffigurante il “Trionfo della Morte di palazzo Abatellis” a Palermo antecedente al fiammingo di circa un secolo, in cui appare con palese evidenza una similitudine nella raffigurazione delle morte a cavallo che irrompe al galoppo nella scena, armata di tutto punto con spada, falce ed arco, scoccando i suoi dardi verso un gruppo di censo più elevato mentre il gruppo di popolani sulla sinistra, quasi disdegnati dalla morte, osservano gli accadimenti con sguardi che potremmo definire tra lo sconcertato ed il compiaciuto, forse prodromi di partecipanti a banchetti pasquali sui tetti dei condomini.

Vi sono poi altri “trionfi della Morte” tra i quali spicca l’affresco sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone nel quale vediamo la morte incoronata ed ammantata da un prezioso mantello che si erge su di un sepolcro ed è lì coadiuvata da due “scheletrini” arcieri che mirano ad una processione di potenti. Anche in questo caso pare trasparire una strana coincidenza, l’affresco di Clusone località ed ultima propaggine di quella Valle Seriana martoriata dall’epidemia di Covid19 basti pensare ai numeri di Nembro e al suo tributo di morti, per non dimenticare poi la valle della Tuscia in cui a Tarquinia vi è l’affresco del “caca anime”, località che con Fondi sono nel centro Italia le zone a maggior diffusione di contagi.

Probabilmente parlando nello specifico di malattie pestilenziali l’icona più nota è quella apparsa in un trattato scientifico del 1720 in cui vediamo per la prima volta il cosiddetto “medico della peste” quella figura a noi ben più nota in tanti mascheramenti, anche cinematografici di feste in maschera e carnevali veneziani. Dunque la tragedia attraverso la scienza si sdogana e diviene folklore; sarà mai che qualcosa di simile possa accadere anche oggi? a dire il vero ne avremmo proprio bisogno perché senza sconfinare nella psicologia, se da un lato rappresentazioni e raffigurazioni condivise ci informano, spaventano e solo a volte rassicurano, assai spesso le autorappresentazioni ci angosciano. In tal senso certo non aiuta il cosiddetto “lockdown”, misura certamente opportuna ma in molti casi escludente, in particolar modo proprio per quelle fasce della popolazione più anziane per le quali una coda quotidiana al supermercato diviene l’unica forma di svago e mitigazione della solitudine.

Vi sarebbero poi molte altre raffigurazioni: la peste di San Carlo è rappresentata nei “quadroni del Duomo” in cui un esile vescovo a cavallo fende benedicente la folla dolente degli appestati “alle capanne”, ricoveri di fortuna ai margini della città in cui venivano confinati i malati. Un luogo che richiama alla mente l’idea espressa da Michel Focault per effetto della quale, la peste in città o divide od esclude. Chiediamoci quindi quanta assonanza o dissonanza vi si possa intravedere con l’immagine a dir poco dirompente di un uomo solo e bagnato in una piazza San Pietro deserta. Lo stesso uomo che claudicante si incamminava in una Roma sempre deserta verso il “crocefisso miracoloso”.  Abbiamo poi l’imperiale visione di un Napoleone in alta uniforme che con uno sguardo tra l’inespressivo e il catatonico avvicina la mano quasi volesse toccare un bubbone pestilenziale di un aitante militare che ha servito lo stato; ed ancora non si può tralasciare le immagini che oggi circolano della “Spagnola”. Di essa già vediamo infermiere e volontari con le mascherine, ospedali di fortuna lindi ed ordinati ed altri in cui l’unica fortuna pare il potervici entrare, sembra dunque che la storia si ripeta beffarda e ci interroghi sul come sia potuto accadere e sul come abbiamo reagito.

Più vicini a noi nel tempo e nel sentire si appalesano i drammi di un Edward Munch emaciato e convalescente proprio dopo la “febbre spagnola”, da cui si salvò forse per ripensare ancora a quell’ultimo “urlo” del 1910 in cui come ci dice la rete vediamo: “la condizione esistenziale dell’uomo moderno, afflitto dalla solitudine, dall’incomunicabilità e dall’angoscia” e in cui sullo sfondo  si diluiscono e languono i colori con cui oggi i bambini disegnano lenzuola arcobaleno da appendere ai balconi con il benefico auspicio che “#andràtuttobene” e forse dobbiamo tutti intensamente sperare che sia proprio così.

Per tali ragioni in questi giorni ho pensato a lungo ad un’immagine che incarnasse appieno le infinite sfumature della questione odierna: scienza e superstizione, malattia e dolore, paure e speranze e l’eterno dilemma tra la vita e la morte ma l’unica che si riproponeva con forza è quella che Egon Schiele dipinse nel 1918 per consacrare la morte della moglie Edith a causa del morbo della “grande Influenza , malattia che di lì a poco si sarebbe portato via anche lui appena ventottenne  e, da quella, provare a riaprire le porte alla speranza, pensando a come invece sia andata a “Mattia” mitologico “paziente1” italiano che dopo tanto lottare tra la vita e la morte attaccato ad un respiratore, ha potuto veder nascere sua figlia (1); personaggi ed evento questo di cui ancor oggi non abbiamo immagini. Resta pero il fatto che sia quasi una rivincita della vita sulla morte, che poi è quello che tutti intimamente speriamo, a livello personale e sociale anche in questi giorni.

(1) Giulia è nata il 7 aprile all’ospedale Buzzi di Milano.

L’iper-prossimità e la coabitazione nei servizi di welfare

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Giuliana Costa

Data:

9 Aprile 2020

Risorsa e minaccia al tempo del covid-19

È da molto tempo che, come ricercatrice, mi occupo di coabitazione tra persone non appartenenti allo stesso nucleo familiare e, nello specifico, di come viene interpretata e messa in atto nell’ambito delle politiche sociali. Si tratta di un tema poco esplorato, sia dalle scienze sociali, sia da chi si occupa di analisi delle politiche pubbliche, sia da quelle discipline che più da vicino guardano alle dimensioni dello spazio.

In Italia, uno dei Paesi più vecchi al mondo, il tema è entrato nel dibattito pubblico sul welfare con la diffusione delle assistenti familiari, le badanti, che hanno ormai da almeno 15 anni sopperito all’assenza o alla debolezza dei servizi domiciliari a favore di persone anziane non più autonome che hanno bisogno di supporto nello svolgimento della vita quotidiana. Si sono formati così nuclei di convivenza di persone, spesso diadi anziano/a-badante, che, proprio grazie al fatto di vivere insieme, restituiscono una risposta spesso efficiente ed efficace, specie in contesti culturali in cui ricoverare costituisce davvero una scelta di ultima istanza.

In realtà però, l’iper-prossimità riguarda una pletora di altri gruppi e bisogni sociali (Costa e Bianchi 2020). Sono diversi infatti i servizi che fanno della convivenza “sotto lo stesso tetto e dietro la stessa porta” (Costa 2016) un ingrediente fondamentale del proprio operato, sia nell’alveo delle politiche pubbliche, che della progettazione sociale di enti privati non profit come associazioni e cooperative nonché da parte di fondazioni.

La convivenza diventa risposta alla domanda che, secondo il mio punto di vista, emerge con urgenza allorquando si è di fronte ad un qualche deragliamento dei percorsi standard di vita che fa sì che le persone non possano più vivere nella propria casa o in quella della propria famiglia: “dove lo metto?”, “dove la metto?”.  Il problema o, più spesso, i problemi che l’uscita “dai binari” – per stare nella metafora ferroviaria – porta con sé devono fare i conti con la questione degli spazi del vivere, dell’abitare, di un nuovo abitare. Non solo quindi “dove metto la mamma affetta da demenza?”, una domanda che si pongono centinaia di migliaia di persone in Italia, ma anche “dove metto mio figlio con gravi problemi psichici, non più in grado di stare con noi a casa?”.

La domanda riguarda non solo i singoli individui o le singole famiglie, ma anche la collettività allorquando si è di fronte a questioni inerenti a gruppi sociali più ampi: “come possiamo dare un po’ di dignità alle persone senza dimora? Come dare loro riparo, specie nei mesi invernali?”; “come e dove proteggiamo le donne vittima di violenza domestica o di tratta”?; “come e dove facciamo sì che migranti in fuga da guerre e persecuzioni possano riprendere fiato e sostare?”; “dove permettere alle persone di scontare pene alternative, fuori dal carcere?”; “come aiutare i neomaggiorenni in carico ai servizi sociali ad avere un’autonomia abitativa”? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi a lungo.

Per tutti la dimensione del dove, diventa centrale e dirimente circa che tipo di società vogliamo, su quale base costruiamo i diritti di cittadinanza. E a ben pensare, buona parte dei servizi e delle risposte di welfare che hanno un contenuto anche residenziale, prevedono che le persone vivano insieme, in strutture comunitarie con il supporto di operatori del sociale o in alloggi di civile abitazione, in appartamenti condivisi. In questi luoghi di vita quotidiana si ha una stanza per sé o anche solo un posto letto e si dividono tutti gli altri spazi della domesticità, dalla preparazione e consumazione dei pasti allo svago.

Ecco perché la coabitazione rappresenta una dimensione importante delle politiche sociali e delle politiche abitative ad alto contenuto sociale (Tosi 2017). La nostra infrastruttura socio-assistenziale vede la presenza di diverse “case” – case rifugio, case di accoglienza, case famiglia e tante altre -, di comunità e di micro-comunità che fanno parte della rete dei servizi di welfare del nostro Paese.

Trovano anche corpo nell’operato di una miriade di piccole organizzazioni che lavorano per progetti, che provano a rispondere in modo innovativo a bisogni sociali emergenti, magari non caratterizzati da alti livelli di criticità, come ad esempio (ma è, di nuovo, un esempio tra tanti) quelli di chi si trova alle prese con una separazione o un divorzio e lascia la casa in cui viveva assieme al proprio coniuge. Luoghi da cui si riparte, lontani – quando le cose sono fatte per bene – da logiche istituzionalizzanti. Ancora, è sulla coabitazione che fanno perno i tanti progetti di accoglienza in famiglia, di affido o di ospitalità.

L’irrompere prepotente e veloce del Covid-19 ha però creato criticità inedite per chi vive assieme ad altri e per chi organizza a vario titolo, come parte della propria mission, diverse forme e modelli di convivenza tra i propri utenti. Le regole di distanziamento sociale e anti-contagio sono difficili da mettere in atto, oltre che nelle case di riposo, una vera emergenza nell’emergenza (Arlotti e Ranci 2020), una strage silenziosa dati gli altissimi tassi di contagio e mortalità in corso, anche in tutte le strutture collettive di carattere sociale che concentrano un alto numero di utenti, come i dormitori per persone senza dimora o in emergenza abitativa.

In tutta Italia sono in atto profonde riorganizzazioni dei servizi a bassa soglia e di quelli di secondo livello, come appunto le varie “case” che innervano, come affermato, una pluralità di interventi di welfare. Da una breve ricognizione fatta da me in quest’ultima settimana per mezzo dell’analisi della stampa e di interviste telefoniche ad operatori e gestori, le logiche con cui si sta procedendo a rispondere all’emergenza sanitaria per far sì che l’iper-prossimità non si trasformi in minaccia, sono principalmente due: da un lato, si sta cercando di diradare le presenze laddove possibile per mettere spazio tra le persone e porle nella condizione di rispettare la quarantena.

A Milano, da dove scrivo, il Comune si è per esempio trovato nella necessità di “alleggerire” Casa Jannacci, il grande dormitorio pubblico della città che normalmente ospita oltre 400 persone, per “evitare che [gli utenti] escano dalle strutture e per tutelare meglio sia loro che gli operatori che continuano a lavorare”, come ha spiegato l’Assessore alle Politiche Sociali e Abitative, Gabriele Rabaiotti. Enti del terzo settore (in questo caso la cooperativa Spazio Aperto Servizi, gestore della Casa, ed Emergency) con la Protezione Civile hanno allestito gli spazi del centro sportivo Saini – chiuso ormai da febbraio – per ospitare 160 persone che lì sono già state traferite. Anche la tensostruttura del Social Music City nell’ex Scalo ferroviario di Porta Romana è stata adibita a questo scopo e vi sono state trasferite 120 persone. Chi non ha casa e “deve stare a casa” trova risposta in questo modo, nella possibilità di “stare” per tutto il giorno e non più solo per la notte o per alcuni momenti nel resto della giornata.

La seconda strategia è quella di agire delle forme di controllo ferree in molti dei luoghi del welfare da cui non si esce più per niente per evitare contagi che, se dovessero avvenire, metterebbero in difficoltà estrema i conviventi. L’introversione organizzativa e della vita quotidiana diventa protezione delle persone e della coabitazione. Nelle comunità di vario tipo si cerca di tutelare gli operatori che continuano a supportare le persone che vi abitano, imponendo anche a loro misure severe di autoprotezione, anche se in alcuni casi si è assistito a ritardi nella loro adozione.

Da ultimo mi preme segnalare come, in tempi di covid-19, si stiano creando nuovi spazi di coabitazione, proprio per fare fronte alle inedite domande circa il “dove lo metto?” che la pandemia sta per forza generando. Se da un lato le forme di convivenza sono sotto scacco – tutte, non solo quelle che si esplicano in grandi strutture, ma anche in quelle piccole – dall’altro la convivenza diventa innovazione, frutto di resilienza della città di fronte all’avanzare della pandemia.

Gli esempi sono tanti e si stanno moltiplicando di settimana in settimana ma mi limiterò ad indicarne tre. Primo: sempre nell’ottica di decomprimere Casa Jannacci, un’ulteriore struttura è stata messa a disposizione dei rider senza casa a Villapizzone. Lì un ex centro diurno che è stato riadattato a casa-famiglia e concesso gratuitamente a 20 giovani rider. Secondo: la cooperativa La Cordata, assieme al Comune di Milano, alla Cooperativa Comin, a Emergency e alla Diaconia Valdese, ha trasformato un piano del proprio residence in via Zumbiniin modo da accogliere 6 minori tra i 6 e i 14 anni, i cui genitori sono in ospedale perché positivi al coronavirus e che non hanno altri adulti di riferimento che possano prendersi cura di loro. Anche in questo caso sono in grado di ottemperare al protocollo sanitario vigente, garantendo la quarantena in isolamento a bimbi e ragazzi. Il terzo esempio è più generale e riguarda l’avviso pubblico lanciato il primo aprile dal Comune di Milano per “individuare strutture e alloggi di accoglienza per personale sanitario operativo e lavoratori nei servizi essenziali, cittadini sottoposti a quarantena (anche Covid-19 con sintomi lievi) che non hanno la possibilità di dimorare presso il proprio domicilio e persone in difficoltà sociale e abitativa”.

Alberghi ormai deserti stanno mettendo a disposizione le proprie camere, in stretta collaborazione con il Comune. Uno di questi è l’Hotel Michelangelo, nei pressi della Stazione Centrale di Milano. Lì potranno essere ospitati soggetti positivi al Covid, loro contatti stretti con quarantena obbligatoria che sono stati dimessi o non hanno avuto percorsi ospedalieri, persone che non hanno alloggi idonei alla quarantena, Forze dell’Ordine, persone senza fissa dimora o coloro che alloggiano temporaneamente in strutture comunitarie. Lo stesso vale per l’Hotel dei Cavalieri in Piazza Missori che ospiterà medici esposti al Covid-19 che non possono far rientro nei propri nuclei familiari a causa dell’impossibilità di garantire un sufficiente distanziamento sociale utile a proteggere persone conviventi. Da ultimo, anche la messa a disposizione dell’ostello della gioventù “Piero Rotta”, nel quartiere Qt8, permetterà a 200 persone di fare la quarantena.

Lo “stare a casa” per molti, in piena emergenza coronavirus, è “stare a casa con altri che non sono i propri familiari”. Con regole stringenti e tentativi di creare spazi di non contagio anche se non si tratta solo di una questione di prossemica. Le politiche sociali con una dimensione abitativa – quelle che danno luogo alle varie “case” e comunità di cui sopra – sono dunque oggi profondamente coinvolte dall’emergenza Covid-19. Lo sono anche tutte quelle soluzioni dell’ultima ora che vedono l’aggregazione di persone per dare loro una risposta sanitaria. Si tratta ora però di reinventare la coabitazione perché, come è stato affermato dal virologo Andrea Crisanti in un’intervista al Corriere della Sera, ora “per tornare a essere liberi e uniti bisogna per forza separarsi”.

Link:

>>welforum.it

I nodi che vengono al pettine con il coronavirus. Un’occasione di innovazione?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Giuliana Costa

Data:

3 Marzo 2020

Il timore oggi è che il sistema sanitario italiano “non regga”: che fare allora? Come dall’emergenza covid-19 si possa imparare per migliorare la sanità

Lavorano ormai sul filo del rasoio gli ospedali che si collocano nell’epicentro dello sviluppo dei contagi, con turni di lavoro definiti ormai massacranti, medici ed infermieri che non riescono a prendersi pause e ore di riposo, reparti pieni e posti in terapia intensiva che incominciano a scarseggiare. Con l’avanzare del coronavirus vengono al pettine diversi nodi del sistema sanitario nazionale e di quelli regionali, frutto di scelte e politiche che in questo momento si dimostrano se non errate, quanto meno miopi…

 

La diffusione del covid-19 sta mettendo alle strette il sistema sanitario italiano, considerato uno dei migliori al mondo. Secondo gli ultimi dati, aggiornati dalla Protezione Civile alle 18 di ieri 2 marzo, il numero delle persone contagiate è arrivato a 1835, di cui 927 in isolamento domiciliare, 742 ricoverati con sintomi e 166 in terapia intensiva. Sono guarite 149 persone e ne sono decedute 52. Oggi i contati hanno superato i 2000. Il timore oggi è che il sistema sanitario “non regga”. In Lombardia, regione che ospita il maggior numero di contagiati del Paese (1077, quasi il 60% del totale) e che ospita il primo focolaio del virus (la “zona rossa” che comprende i comuni di Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini), oltre ad aver adottato già da oltre 10 giorni misure draconiane per fermare il contagio (chiusura scuole, università, teatri, cinema, impianti sportivi, utilizzo di forme di smart-working e telelavoro), in queste ore si è messa in moto una macchina organizzativa tesa al reperimento di risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza. Alla conta dei posti letto a disposizione negli ospedali pubblici da destinare a persone che possano aver bisogno di essere ricoverate, si sommano proposte in grado di aumentare gli operatori sanitari al lavoro. Lavorano ormai sul filo del rasoio gli ospedali che si collocano nell’epicentro dello sviluppo dei contagi, con turni di lavoro definiti ormai massacranti, medici ed infermieri che non riescono a prendersi pause e ore di riposo, reparti pieni e posti in terapia intensiva che incominciano a scarseggiare. E allora, ci si domanda come fare fronte alla necessità di aumentare i medici e gli infermieri in servizio così come di creare dei posti letto aggiuntivi, in particolare quelli ad alta protezione.

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La prospettiva di un aumento considerevole del numero di infettati con bisogni di assistenza sanitaria spinge la Regione ad adottare misure straordinarie. Fioccano idee e con loro, i partiti del sì e del no ma, in ogni caso, con l’avanzare del coronavirus vengono al pettine diversi nodi del sistema sanitario nazionale e di quelli regionali, frutto di scelte e politiche che in questo momento si dimostrano se non errate, quanto meno miopi. Se da un lato l’impianto sanitario in essere funziona e risponde efficacemente all’epidemia, vi sono tanti elementi che fanno dell’emergenza coronavirus un’occasione unica per ripensare e rilanciare le politiche sanitarie del nostro Paese. Dal covid-19 possiamo imparare qualcosa. Lo ha sostenuto anche David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, una settimana fa, in occasione della presentazione del rapporto Asvis a Roma: “Credo che questa emergenza in Italia valga una grande riflessione sul sistema sanitario e sull’organizzazione regionale del Sistema Sanitario Nazionale. Penso che questa sia un’occasione per ricominciare a discuterne perchè penso che spezzettare la sanità pubblica in 20 regioni, in venti competenze esclusive, sia probabilmente non adeguato ad affrontare emergenze di questo tipo”. Lo sostengono in tanti -medici, commentatori, giornalisti, policy maker – con toni che sfiorano talvolta il lirismo patriottico con dichiarazioni quali “l’emergenza coronavirus è uno stimolo vero per far rinascere il nostro sistema sanitario” (parole del sottosegretario al Ministero della Salute PierPaolo Sileri intervenuto ieri sera nel programma “Quarta Repubblica” andato in onda ieri sera su Rete 4).

Provo a sintetizzare le questioni e i fatti più spinosi che oggi, come nodi che vengono al pettine, costituiscono gli elementi su cui fondare occasioni di apprendimento e di ripensamento delle nostre politiche sanitarie, intese in senso lato:

1) Il difficile accesso alla formazione in campo sanitario: è da più di 10 anni che l’accesso alle facoltà di medicina è regolato da un sistema a numero programmato, istituito dalla legge 294 del 2 agosto 1999. Tale meccanismo è stato introdotto per razionalizzare le risorse esistenti destinate alla formazione dei futuri medici (aule, docenti, laboratori, occasioni di didattica negli ospedali) e per selezionare i “migliori” studenti, chiamati ad impegnarsi in un percorso di studi lungo e difficile. Nella tornata di settembre 2019 i posti disponibili erano 11.568 a fronte di 68.600 aspiranti candidati, in un rapporto 6 a 1 quindi. Questo meccanismo ha, negli anni, dato luogo a innumerevoli critiche, proteste e ricorsi collegati non soltanto alla farraginosità dei processi amministrativi quanto al fatto che in Italia mancano medici e il numero chiuso non aiuta certo a colmare questo gap. Ancora, mancano risorse per le scuole di specializzazione, una volta laureati in medicina scarseggiano anche le borse per continuare il proprio percorso formativo; si stima infatti che l’anno scorso siano circa 15.000 i giovani che si sono trovati nell’impossibilità di proseguire nello studio.  Queste criticità sono oggetto di una proposta di legge del Movimento 5 Stelle – relatore Manuel Tuzi- già depositata in commissione Cultura alla Camera in cui si modificano i meccanismi di selezione in itinere: l’esame non più posto all’accesso ma all’inizio del secondo anno, una sorta di prova di verifica unica, valida per i corsi di laurea in Farmacia, Odontoiatria, Chimica e tecniche farmaceutiche, Scienze biologiche e Biotecnologie. La proposta prevede anche l’istituzione del finanziamento di borse di specializzazione attraverso il meccanismo dell’8 per 1000 per superare l’annosa questione della mancanza di risorse economiche dedicate. La discussione della proposta di legge avrebbe dovuto iniziare questo mese, marzo 2020. In questi giorni, gravidi di paure relative all’aumento del numero di persone che necessitano di aiuto medico, uno dei temi più dibattuti sui giornali, programmi radiofonici e televisivi è proprio quello relativo alla necessità di aumentare il sistema complessivo della formazione in campo medico e di farlo in tempi relativamente rapidi e non in forma graduale come indicato dalla proposta di legge su menzionata. Torna dunque con rinnovata forza la richiesta di investire di più sulla formazione dei futuri medici e infermieri aumentandone la dotazioni di risorse infrastrutturali ed economiche.

2) La carenza di personale medico ed infermieristico: negli ultimi giorni si susseguono descrizioni epiche di quanto sta accadendo negli ospedali che servono la zona rossa (in particolare quelli di Lodi e Cremona), dove medici e infermieri vengono descritti come “eroi in prima linea contro l’emergenza coronavirus”. Lo stato di emergenza da coronavirus non fa che rendere ancora più palese l’endemica mancanza di personale sanitario che caratterizza il nostro Paese. Si stima che nel 2025 mancheranno all’appello almeno 16.000 medici. In Italia non solo si formano pochi medici ma se ne assumono ancora di meno; i pochi concorsi spesso vanno addirittura deserti. Ora sono necessarie delle risposte rapide per reperire e mettere al lavoro medici e infermieri. Le soluzioni messe in campo, benché problematiche e di non facile attuazione, si moltiplicano. In primo luogo, è dell’altro ieri l’annuncio di Giulio Gallera, assessore al welfare della Regione Lombardia, di voler richiamare in ruolo i medici pensionati i quali, a loro volta, hanno reagito con entusiasmo a tale appello. Di fronte a questa evenienza, si sono fatte sentire voci critiche che esprimono idee molto diverse circa come superare l’impasse. Maria Rita Gismondo, direttore del laboratorio di Virologia dell’ospedale Sacco di Milano, ha suggerito invece di puntare sui giovani laureati, già formati e meno a rischio rispetto ai colleghi in tarda età pur se non dotati di specializzazione. Gli specializzandi sono già all’opera. Ieri, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha proposto l’assunzione di oltre 100 infermieri nella regione e l’anticipo delle sedute di laurea per permettere l’ingresso nel Sistema sanitario nazionale di nuove leve. Ancora, sono stati banditi concorsi lampo per infermieri da inserire negli ospedali “di frontiera” con contratti a tempo determinato. Un ultimo vertice della strategia di reperimento di personale medico riguarda la richiesta di aiuto alle strutture sanitarie private in Lombardia alle quali si è chiesto di rinunciare agli interventi programmati in modo da mettere a disposizione i propri professionisti, in particolare anestesisti e medici in grado di accompagnare i malati in terapia intensiva.

3) La scarsità di risorse e i sistemi di governance della sanità: secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe, think thank di politica sanitaria, nel periodo 2010-2019 sono stati sottratti 37 miliardi di euro al Servizio Sanitario Nazionale, impoverito da tutti i governi che si sono succeduti. Il taglio di reparti (oltre 700 negli ultimi 10 anni) e posti letto si fa sentire anche nella ricca Lombardia, regione che ha la maggior dotazione di posti letto ospedalieri di tutto in Paese. Di fronte alla diffusione del virus e del necessario ricorso a terapie mediche in regime di ricovero, mostra anch’essa qualche fragilità. Ieri mattina si segnalavano la presenza di circa soli 10 posti letto in terapia intensiva liberi entro il territorio regionale e la necessità di chiedere aiuto ad altre regioni per l’invio di malati che ne avessero bisogno. Questa emergenza sta mettendo in discussione le prerogative di autonomia differenziata che le regioni del nord, inclusa la Lombardia, hanno portato avanti negli ultimi anni. Ci si rende conto dell’importanza di avere un sistema sanitario coeso, per quanto articolato, come prevede l’impianto costituzionale, a livello regionale. Un’altra questione che in questi giorni viene molto dibattuta in Lombardia è il rapporto con la sanità privata, chiamata a fare la sua parte nel mettere a disposizione risorse per il fronteggiamento dell’allarme sanitario. E’ di ieri la notizia che la Regione ha chiesto alle strutture sanitarie private convenzionate (che fanno parte del sistema sanitario lombardo prestando servizi finanziati dal pubblico) di sospendere, come illustrato sopra, gli interventi programmati e non urgenti in modo da dirottare risorse verso l’emergenza virus. Durante un incontro tra i vertici regionali e i rappresentanti di Aiop (Associazione italiana ospedalità privata), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Assolombarda è stato stilato un piano secondo cui gli ospedali privati metteranno a disposizione posti letto, “prestando” i loro medici al sistema pubblico, soprattutto, ma non solo, per aiutare i colleghi delle zone dove ci sono più contagi. In un sistema come quello lombardo che ha fatto del rapporto stretto tra sanità pubblica e sanità privata (con l’ingente finanziamento di quest’ultima a valere su fondi pubblici), la questione ora è quella di capire se e quanto i privati possano costituire davvero una risorsa cui attingere di fronte all’emergenza. Si giocano qui anni di tentate innovazioni di sistema e di trasformazioni dell’assetto della sanità lombarda. Per far fronte alla diffusione del virus la Regione, assieme alla Protezione Civile, ha anche mobilitato gli ospedali militari. Nelle prossime ore sarà utilizzato l’ospedale militare di Baggio, a Milano, pronto per accogliere 50 pazienti che saranno assistiti da medici militari oltre che da personale sanitario specializzato distaccato da reparti di infettivologia.

Dunque: la necessità di affrontare l’emergenza sanitaria data dalla diffusione del covid-19 sta obbligando la classe politica e intere categorie professionali a scontrarsi con le strozzature di cui ho dato conto sopra e con tante altre che riguardano aspetti organizzativi del sistema sanitario. Per quanto si stia lavorando alacremente (ed è assolutamente doveroso darne evidenza), per quanto si sia obbligati a concentrare sforzi sulle questioni di rilevanza sanitaria più urgente, credo che questo stato di eccezione costituisca una buona base di partenza per avviare dei processi di policy innovation. Le proposte che si stanno moltiplicando di ora in ora come misure tampone possono diventare inneschi virtuosi in grado di avviare dei cambiamenti in grado di sanare le carenze sopra evidenziate o restare invece lettera morta. Ora pensiamo al contagio ma, a breve, credo dovremmo capire come capitalizzare gli insegnamenti dati da questo piccolo esserino, capire come la sua diffusione possa informare le politiche del futuro.

Giuliana Costa- Professore Associato di Sociologia al Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani

 

L’articolo è stato pubblicato il 3 marzo 2020 dal sito La voce di New York
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Spazi e “specie di spazi” per la cura

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Michela Bassanelli, Imma Forino, Pierluigi Salvadeo

Data:

10 Aprile 2020

La gestione dell’epidemia del Covid-19 in Lombardia ha evidenziato una grande fragilità nell’organizzazione del nostro sistema territoriale e, in sostanza, di una comunità, fatta di persone, servizi, luoghi; in particolare riguardo alla conformazione del sistema sanitario, che per primo ha dovuto affrontare e cercare di contenere il contagio. Qualche settimana fa un gruppo di medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha espresso una riflessione fondamentale in merito: “I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care (un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente, ndt). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care”(>>www.bergamonews.it). È cioè venuto a mancare quel filo che sul territorio lega i servizi dedicati alla cura, alla comunità, mentre dispositivi mobili e cure a domicilio avrebbero potuto evitare spostamenti non necessari, impedendo ulteriori contatti e riducendo i contagi. Dall’altro lato, abbiamo assistito alla nascita di pratiche bottom-up, con la creazione di reti di quartiere, grazie a volontari che cercano di rispondere alle altre esigenze della comunità: alimentare, sociale, legata alle persone fragili, psicologica.

Da una decina di anni stiamo assistendo allo sviluppo di una serie di epidemie (Sars nel 2002; Mers nel 2012) che stanno cambiando i nostri modi di vivere e di relazionarci, condizione che con il nuovo Covid-19 ci toccherà da vicino ancora per molto tempo e che, molto probabilmente, caratterizzerà la nostra società anche in futuro, entrando a fare parte della sua conformazione. Forse stabilmente.

Già la No-stop City (1969) degli Archizoom prefigurava un’architettura come spazio continuo, territorio di scambio e innovazione, in una forma dattiloscritta che ricorda l’immagine stessa del virus. Nel 1972, invece, Gaetano Pesce presentava nell’ambito della mostra “Italy: The New Domestic Landscape” (The Museum of Modern Art, New York) un progetto abitativo sotterraneo rispetto a una pandemia contaminante aria e acqua: un bunker in cui rifugiarsi, che ora appare profetico, e con cui l’architetto e designer immaginava di progettare un’intera città (Project for an Underground City in the Age of Great Contaminations).

Se da un lato l’emergenza virale ha fatto riscoprire l’individualità dell’abitazione, d’altro canto si palesa la necessità di un ripensamento generale della gestione dell’emergenza e, soprattutto, delle forme e pratiche della vita quotidiana verso processi comunitari, continui e diffusi nel territorio. Da ciò nasce l’idea di ripensare all’abitare e alla casa come elemento centrale all’interno di un nuovo e diverso sistema sanitario. La casa, oltre a essere il luogo dell’intimità, del lavoro, dello sport, potrà diventare anche luogo della prima cura in un’ottica di ripensamento di un sistema operativo di spazi e servizi.

Panem et domus al tempo del Covid-19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Imma Forino

Data:

6 Aprile 2020

Farina e lievito di birra sono fra i beni di prima necessità a sparire dagli scaffali dei supermercati. — L’industria molitoria in Sicilia non solo non si ferma, ma implementa la sua produzione trasformandola a ciclo continuo ovvero senza interruzioni. — I fattorini del delivery food lamentano i pericoli sanitari in cui incorre la categoria professionale, a rischio non solo per la precarietà dell’impegno ma, ora, anche per i possibili contagi. In tempi di virus globale, le cronache recenti testimoniano un cambiamento epocale nelle abitudini di vita degli italiani, e non solo, concretizzatosi in un lasso di tempo brevissimo.

Dopo più di una decade in cui le esistenze  erano improntate ai diktat della mobilità e del cambiamento, per ragioni professionali o di studio, ad assetti domestici temporanei o per lo meno vissuti come tali, a pasti approntati o consumati in fretta o, viceversa, sostituiti da preparazioni pre-pronte o consegnate a domicilio o, infine (e per chi può permetterselo), centellinati in ristoranti gourmet, i “nuovi nomadi” restano a casa e cucinano o imparano a farlo. Pane, focacce, torte: sono gli impasti a essere preferiti, non solo perché inventivi ma perché densi di una manualità lenta e pensosa. Ritorno al gesto, laddove il pensiero si perde nella paura.

Il telelavoro ‒ ben diverso dallo smart working, che implica riunioni frequenti e di persona ‒ riempie il resto delle giornate, mentre i figli seguono le lezioni a distanza o, appena possono, si connettono alla playstation collegandosi in remoto con gli amici e urlando come forsennati. Ore e ore trascorse davanti alla televisione o allo schermo del pc o dello smartphone riempiono occhi ed orecchie di aggiornamenti funesti, mentre “fuori” le autoambulanze sfrecciano dilaniando il silenzio della “città vuota” (It’s a Lonely Town di Gene McDaniels diventa nel testo di Giuseppe Cassia e nell’interpretazione di Mina struggente rimpianto in una affollata metropoli).      

La casa è diventata l’epicentro di ciascuno, roccaforte da cui non allontanarsi, baluardo da opporre al contagio, alla malattia, alla morte. Come in altri periodi di crisi ‒ quella petrolifera degli anni Settanta, il tempo delle stragi del medesimo decennio, il crollo economico del 2008, gli attentati terroristici del nuovo secolo ‒ si assiste al riflusso nel privato, oggi più che mai obbligatorio se si vuole avere scampo. Abbandonati per viaggi intorno al mondo, frequenti giri fuori porta o ameni fine settimana, i luoghi domestici tornano a essere le quinte del vivere quotidiano.  E in essi la cucina è rinnovata ribalta, e non più retroscena, perché pane e abitazione sono inestricabilmente connessi. Sitòfagoi [mangiatori di pane] erano gli eroi omerici, distinti così dai famelici barbari per indicarne la civiltà ‒ fare il pane richiede esperienza e competenza ‒ incentrata intorno all’òikos, la casa o unità-base della società, all’origine della democrazia occidentale.

In una contemporaneità, che nella sua eccitante fuga in avanti ha accantonato la dimensione culturale della domesticità, vale la pena provare a riflettere sul senso di questo ritorno a casa, per quanto forzato esso sia, e su quale prospettive aprirà, “dopo” il tempo del Covid-19 .

Alcune riflessioni sull’architettura di interni ai tempi del COVID_19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Pierluigi Salvadeo

Data:

5 Aprile 2020

COVID_19, qui finisce il Novecento!
Non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca!

Da tempo, parecchio prima del Coronavirus, andavamo dicendo che la tecnologia, soprattutto quella informatica, stava cambiando la nostra maniera di essere nel mondo; che il viaggiare era ormai diventato una delle normali condizioni dell’abitare; che potevamo vivere e lavorare in ogni luogo e in ogni spazio perché tanto eravamo sempre connessi; che il computer ci metteva in relazione gli uni con gli altri ovunque ci trovassimo; che virtualmente potevamo essere in un posto e in un altro nello stesso momento temporale; che le città erano ormai diventate luoghi attraversati spazialmente da diversi tipi di mobilità: dalle persone, alle cose, alle informazioni e altro ancora.

 

Già prima del 2020 avevamo iniziato a vivere in una realtà composita senza gerarchie predominanti e attraversata da una moltitudine di stili e forme diverse, di usi, di luoghi, di ambienti, di tecnologie, di servizi, di informazioni, di linguaggi, di immagini, di scene, di marchi, di pubblicità, di economia…, convincendoci che infondo “la città è ovunque e in ogni cosa” (A. Amin; N. Thtift, Cities. Reimagining the Urban, Cambridge, Polity Press, 2001): negli esterni come negli interni, nelle azioni come nelle cose e paradossalmente nell’urbano come nel non urbano.

 

Ed è così, che lo spazio abitato, ovunque esso sia, ha cessato di essere semplicemente uno spazio architettonico, per diventare una struttura d’uso complessa, dove le funzioni abitative, quelle produttive, quelle di servizio, ecc. si distribuiscono liberamente su una specie di piano uniforme e continuo. Una nuova domesticità “invasa” e “invasiva” allo stesso tempo, caratterizza ormai gli spazi delle nostre vite (K. Matsuda, Domesti/City – The dislocated home in augmented space. London. (diploma thesis, 2010 – supervisor: Vesna Petresin Robert). Invasa, perché la vita che normalmente si svolge fuori dalla casa, nella città come nel territorio, è ormai entrata a far parte degli spazi più intimi dell’abitazione. Invasiva perché la condizione abitativa che ognuno di noi ha sempre gelosamente custodito nell’intimità della propria casa, è ormai emigrata all’esterno, invadendo ogni spazio e ogni luogo. Le nostre azioni non sono altro che una continua sovrapposizione di situazioni di diversa natura, che hanno luogo, indifferentemente, in un tutto abitato, costituito da spazi molto diversi uno dall’altro, dentro o fuori dall’ambito domestico.

 

Si tratta di una ridistribuzione orizzontale degli usi che tuttavia non credo abbia, almeno fino ad ora, rappresento una forma di appiattimento del vivere, al contrario, si sono col passare del tempo sempre più raffinati i modi in cui eseguiamo le nostre azioni, anche quelle più semplici e quotidiane, che con facilità e stile possono essere svolte in ogni luogo possibile. È un sovvertimento del modo di abitare, sempre più dilatato e aperto, sempre più eterogeneo e inclusivo, che ha cambiato i nostri gesti, che ha cambiato la sequenza delle nostre azioni quotidiane, che ha cambiato il modo di relazionarsi alle cose e alle persone, che ha cambiato la qualità dello spazio nel quale viviamo o vorremmo vivere, che ha cambiato la nostra idea di esperienza. Complice di questo è la tecnologia, ma non vi è dubbio che la vera rivoluzione, ormai, è di tipo comportamentale e più legata alla sfera culturale e personale degli individui. Come sostiene Alessandro Baricco (A. Baricco, The game, Torino, Einaudi, 2018) l’impressione che la nuova mentalità con la quale affrontiamo le nostre azioni sia il frutto di una rivoluzione tecnologica e informatica, si è ormai dissolta, e ora prevale la sensazione di esserci sporti oltre confine e di aver iniziato a colonizzare zone di noi stessi che non avevamo mai esplorato. In breve, per Baricco, l’impressione è quella di avere acquisito una diversa attitudine culturale e civile. È un’attitudine che segna inevitabilmente un cambio d’epoca, e le posture a cui il Coronavirus oggi ci costringe, ne sanciscono definitivamente le pratiche, le quali, lo sappiamo benissimo, anche dopo l’emergenza, rimarranno per chi sa quanto tempo normali pratiche della nostra vita quotidiana.

 

Sembra che una nuova condizione di internità abbia varcato i confini specifici della disciplina degli interni, costringendola a farsi carico di nuove responsabilità nei confronti della città, e capovolgendo le relazioni comunemente riconosciute tra edificio e città, tra pubblico e privato, tra interno ed esterno. Lo spazio abitato si descrive oggi soprattutto con le azioni che in esso avvengono, che non necessariamente hanno nell’architettura il proprio principale scenario di riferimento. È uno spazio che si erode a favore di nuovi territori di conquista, spesso difficilmente descrivibili con i codici formali classici dell’architettura, e non perfettamente comprensibili o universalmente condivisi. Cambia la sequenza logica con la quale i differenti spazi abitati si posizionano uno rispetto all’altro; tutto è rimescolato, e ogni azione sfuma in quella precedente o in quella successiva. Nuove connessioni di significato cambiano profondamente il modo in cui guardiamo e classifichiamo ogni ambiente. Ogni nostra azione quotidiana presuppone uno spazio o uno sfondo di fronte al quale accadere, e tante azioni presuppongono tanti piccoli e anche minuscoli progetti personali per i quali ognuno di noi ne è diventato l’indiscusso progettista.

 

È questa una grande occasione di creatività personale e collettiva, e per l’architettura di interni una responsabilità senza precedenti!

Coworking in emergenza Covid-19: quali effetti per le aree periferiche?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Ilaria Mariotti, Dante Di Matteo

Data:

Marzo 2020

I ricercatori del Progetto COST Action 18214: ‘The Geography of New Working Spaces and the Impact on the Periphery’ si stanno interrogando sugli effetti della pandemia, innescata dalla diffusione massiva del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 sui nuovi luoghi del lavoro (spazi di coworking) e sui loro utilizzatori (coworkers).

La pandemia ha infatti alterato le consuetudini e lo stile di vita di ciascun individuo in ogni parte del mondo e la forzata necessità di alimentare il ‘distanziamento sociale’ ha sollevato l’esigenza di rimodulare anche le modalità di lavoro degli individui: molti professionisti privati e dipendenti pubblici sono stati esortati a lavorare in smart working (lavoro agile). Se, in molti casi, la dematerializzazione del luogo nell’ambito della prestazione di servizi può addirittura significare lo snellimento di alcune prassi burocratiche (come alcuni servizi di base della PA), per altre tipologie di lavoratori del terziario le misure di distanziamento sociale possono produrre effetti decisamente negativi. È certamente il caso della classe di lavoratori creativi e digitali, ad alta intensità di conoscenza e innovazione, molti dei quali sono utilizzatori abituali degli spazi di coworking (CS) che, essendo concentrati prevalentemente nei grandi centri urbani, necessiteranno di più tempo per garantire il ripristino di tutte le attività e il graduale ritorno alla normalità.

Il recente articolo di Ilaria Mariotti e Date Di Matteo, pubblicato su Eyesreg, argomenta se possibili piani per la rilocalizzazione o riconversione delle attività degli spazi di coworking e dei loro utilizzatori in aree periferiche potrebbero rappresentare, in alcuni casi, una soluzione praticabile per una serie di ragioni, tra cui il fatto che i coworkers che lavorano negli spazi in periferia hanno maggiori possibilità di incrementare i propri ricavi rispetto a coloro che operano nelle aree urbane (Mariotti, Di Matteo, 2020). Vengono, infine discussi criticità ed elementi di incertezza di tali possibili scenari.

Questo studio è stato condotto nell’ambito del Progetto COST Action 18214: ‘The Geography of New Working Spaces and the Impact on the Periphery’ .

Link:
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Coworkers in emergenza Covid19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Ilaria Mariotti

Data:

6 Aprile 2020

I coworking non sono solo luoghi di lavoro: sono spazi di azione connettiva e collettiva di comunità professionali. Mai come in questo momento, c’è bisogno di mantenere spazi di confronto e riflessione, per affrontare l’emergenza Covid19 e – soprattutto – per co-progettare futuri desiderabili.

Il gruppo di ricerca del progetto europeo COST ACTION “CA18214-The Geography of New Working Spaces and the Impact on the Periphery – (2019-2023)- https://www.cost.eu/actions/CA18214– , che coinvolge 28 Paesi e circa 150 ricercatori (di economia, geografia, urbanistica, sociologia, architettura, real estate, etc.), ha aperto una pagina Facebook e un gruppo Facebook per:

– Facilitare il confronto e il supporto reciproco tra coworker su come fronteggiare l’emergenza nella quotidianità.

– Far emergere proposte di azione che possano essere attivate direttamente dai coworker e dai coworking manager.

– Elaborare proposte di policy, da presentare in forma organizzata agli attori pubblici a livello locale e nazionale.

Stiamo mandando inviti alla partecipazione a una lista di più di 600 coworking manager in Italia, chiedendo loro di estendere l’invito a tutti i loro coworker.

Chiediamo a tutte/i di aiutarci nella diffusione.

In un secondo momento creeremo gruppi di confronto negli altri paesi membri del progetto CA28214.

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Un’emergenza nell’emergenza. Cosa è accaduto alle case di riposo del nostro paese?

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Marco Arlotti e Costanzo Ranci

Data:

1 Aprile 2020

Le case di riposo rappresentano una infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-sanitario in quanto rappresentano una delle poche soluzioni residenziali e di cura possibili per persone afflitte da gravi disabilità, che non le consentono più di vivere permanentemente nella loro abitazione, tanto più se senza familiari vicini o senza una badante convivente.

Le strutture residenziali “ospitano” quasi 300.000 anziani over 65, di cui gran parte sono ultraottantenni (il 75%), donne (il 75%) e non autosufficienti (il 78%). Si tratta di strutture in cui la specializzazione sanitaria e di cura è oggi dominante su quella abitativa o alberghiera: sono sempre meno “case di riposo” e sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria. Nonostante la funzione cruciale svolta, in Italia queste strutture ospitano meno della metà degli anziani presenti in analoghe strutture di altri paesi avanzati: il segnale di uno scarso investimento in questo settore da parte delle politiche.

Lo studio documenta tre tendenze degli ultimi anni: una spiccata sanitarizzazione, una fragilizzazione progressiva dei ricoverati, e un processo di privatizzazione delle strutture che sta riducendo il peso del settore pubblico. Queste tendenze fanno emergere un diffuso problema di sostenibilità finanziaria. Le strutture residenziali sono infatti finanziate in parte dal Servizio Sanitario Nazionale (che in teoria dovrebbe coprire il 50% dei costi) e in parte dalle tariffe pagate dagli utenti (o dai comuni nel caso di persone indigenti).

L’aumento delle prestazioni sanitarie e di un’utenza con spiccati bisogni assistenziali ha aumentato notevolmente i costi a fronte della invarianza, da diversi anni, della quota sanitaria di finanziamento pubblico. Stretti nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno ricorso ad altre strategie: l’aumento delle tariffe (a scapito degli utenti più poveri), il taglio del personale (soprattutto quello medico, un fatto paradossale se si pensa che si tratta di strutture sempre più sanitarizzate), la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature. Sono tutti segnali che da soli non spiegano cosa sta accadendo in questi giorni in tali strutture, ma che segnalano una notevole sofferenza gestionale, in una parte sostanziale determinata da una forte disattenzione politico- amministrativa.

L’emergenza di oggi impone un profondo ripensamento dell’intero settore e una rinnovata attenzione da parte delle politiche a questo importante pezzo del nostro sistema sanitario.

 
pubblicato sul sito del Laboratorio di Politiche sociali del Politecnico di Milano – DAStU
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