La chiarezza intellettuale illumina il buio del virus

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Paolo Pileri

Data:

1 Aprile 2020

Covid-19 ha svuotato le città e tutti noi. Ha ridotto le libertà. Ci ha chiuso in casa. Esposto a rischi. Sbattuto in faccia la paura. Una sequenza buia da giorni di guerra. Non vediamo l’ora che finisca e nel presente ringraziamo ogni tipo di eroe che resiste dando speranza. Alberta ad Adria ha inventato le visite virtuali al museo archeologico che dirige (#unsaccodistoria) per non fermare la bellezza. Giacomo, Fabrizio, Susanna, il Rettore e tanti del mio Politecnico (pure in altri atenei) si sono spesi per darci una super-teledidattica per stare in diretta con gli studenti, perché imparare è sempre un’esperienza e non un download. Le centinaia di medici e infermieri sono orgoglio del Paese. I ragazzi di Benevento con la loro tammurriata scaccia-Covid. Ognuno a modo suo, eroe di un’Italia che rantola ma non muore. Sapere delle loro resistenze ci ha reso fieri. Ma quando sei in guerra ho capito che hai il chiodo fisso per il dopo. Le resistenze eroiche sono bellissime ed è giusto così, ma il pensiero del dopo è potente: non ti molla. Pensi a come intrecciare tutte quelle resistenze e quegli eroi con il futuro che verrà. E qui torna, implacabile, quella vecchia verità di Bertold Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Già perchè tutto il male che ci è piovuto addosso non può essere qui solo a ricordarci la nostra abilità a uscire dalle situazioni peggiori, dalle emergenze.

Va bene. Bello. Grazie Presidente, ma io sono stanco di sapermi forte in un Paese che è diventato forte solo nelle emergenze ed è rimasto troppo incauto, stolto ed egoista nella normalità. Siamo usciti mille volte dalle disgrazie e tremila volte ci siamo ricascati. Mi sa che c’è altro da imparare. Pesco allora nel bagaglio prezioso che è sempre la nostra Resistenza al fascismo, che fu una dura scuola di verità, con atti di coraggio morale da un lato e -attenzione- un gran lavoro di chiarezza intellettuale dall’altro, come diceva Norberto Bobbio. Fare chiarezza intellettuale in questo buio: ecco la chiave che cercavo. Quel lavoro intellettuale ci diede le ragioni forti per cambiare strada senza esitazioni e ci vaccinò contro il virus indecente del fascismo. Questo ricordiamo il 25 aprile. Non fu una resistenza che ci riconsegnò al “come era prima”: i suoi eroi non ricevettero una medaglia e ciao. Furono eroi dopo la Resistenza: scrissero la Costituzione. Anche in questa guerra abbiamo bisogno di fare chiarezza intellettuale per costruire un nuovo dopo. Ad esempio, questa improvvisa obbedienza dei politici agli scienziati vogliamo diventi un nuovo modo di governare, dove l’alleanza tra scienza e politica non si accende solo con l’emergenza.

Perché, diciamocelo, quando c’è da ascoltare gli scienziati sul cambiamento climatico, sul consumo di suolo, sull’inquinamento dell’aria (in Italia uccide 223 persone al giorno; J. Lelieveld, 2020), sul glifosato cancerogeno, la politica respinge la scienza. Chiarezza intellettuale vuol dire che il nemico vero non è Covid-19, ma il modello di sviluppo in cui è stato concepito, allevato, dove ha trovato facile diffusione. Questa guerra e le sue resistenze possono darci modo di prendere coscienza che è il modello di sviluppo il problema. La resistenza di oggi può divenire manifesto di cambiamento di domani a condizione che facciamo ora quel prezioso lavoro di chiarezza intellettuale (e politica). “Popoli civili si diventa non coi gesti magniloquenti nei giorni di festa ma col duro lavoro dei giorni feriali”, sempre Bobbio.  Non torniamo al punto di partenza.
 
pubblicato sulla rivista Altreconomia n. 225, aprile 2020
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Molte domande e il desiderio di ripartire con uno sguardo diverso. Una riflessione di Costanzo Ranci

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Costanzo Ranci

Data:

3 Aprile 2020

Riprendo le osservazioni che Gabriele ci ha mandato alcuni giorni fa per sviluppare due punti di riflessione che si stanno formando nella mia mente in queste giornate. Entrambi riprendono aspetti già toccati da Gabriele. Andrò subito al sodo senza troppe dispersioni letterarie.

Solo una breve premessa. La pandemia ha dato a me, ma penso a molti di noi, una grande scossa. D’ora in poi le nostre riflessioni dovranno cambiare, forse in parte sono già cambiate. Ma al tempo stesso lo stress del dolore, della paura e del distanziamento umano e sociale ci può portare a ripercorrere i sentieri intellettuali che siamo soliti percorrere. È comprensibile, abbiamo tutti bisogno di sentirci rassicurati. Ma è anche pericoloso. La crisi ha trovato l’intero paese, direi il mondo intero, noi stessi, impreparati. Non possiamo non farci interrogare da questo fatto. Dove eravamo? In che cosa eravamo impegnati pensando che fosse davvero importante?

A me interessano soprattutto le sfide pubbliche e quindi mi allineo alla prospettiva tratteggiata da Gabriele. Personalmente vedo, per il momento ma i pensieri si affollano e potrebbero ancora cambiare, due questioni che mi interrogano come scienziato sociale, e che potrebbero interrogare anche urbanisti, architetti, gli assegnisti dell’eccellenza, e via dicendo.

La prima questione riguarda la politica pubblica che è stata maggiormente travolta dal virus: la politica sanitaria. Tutti abbiamo negli occhi e nella mente le scene degli ospedali e delle terapie intensive. Storie allucinanti e di grande enorme sofferenza. Ma c’è un aspetto che ci tocca come esperti di territorio e di spazio, sia urbano che non urbano. Il sistema sanitario era stato pensato e progettato anche come un grande sistema territoriale. Gradualmente si è trasformato in una serie di punti ad elevata specializzazione. La medicina territoriale, quella nei luoghi di lavoro e di studio, quella dei medici di base, quella dei servizi territoriali, resiste ancora nel nostro paese (non sempre altrove), ma è confinata in un ruolo sempre più marginale. I tagli finanziari al sistema sanitario hanno colpito sia le strutture ospedaliere che le strutture territoriali, inclusi i medici di base. Le seconde hanno tuttavia subìto la contrazione maggiore.

La pandemia ha forse rimesso al centro questa idea e pratica di sanità territoriale. Ha dimostrato quanto grave sia la sua assenza e quanto potente e necessaria sarebbe la sua presenza, quando riesce ad esserci. È probabile che le regioni che hanno spinto molto sulla ospedalizzazione, la specializzazione e l’apertura al privato (come la Lombardia) abbiano pagato un prezzo più alto. Altre forse hanno tenuto meglio. Uno dei punti più delicati riguarda proprio il rapporto tra sanità ospedaliera e sanità territoriale. Sarà materia su cui indagare nei prossimi mesi. La riapertura, quando ci sarà, dovrà avvenire nel territorio. Lì si giocherà una partita decisiva, per trovare un punto di equilibrio nuovo tra rischi da correre da un lato, e protezione e prevenzione dall’altro. In questi giorni mi sono chiesto spesso dove fossi negli ultimi anni, e come mai non abbia indagato più a fondo questa ritirata dal territorio della sanità pubblica. Penso che dopo il coronavirus, ma anche durante il coronavirus, dovrò/dovremmo puntare il riflettore su questo aspetto decisivo, offrire analisi e proporre soluzioni che ricollochino la sanità nella sua identità originale di sistema di igiene e salute pubblica.

Il secondo aspetto riguarda le vittime principali, sacrificali direi, del virus: gli anziani, e tra questi gli anziani più anziani, i più fragili. Il loro confinamento negli spazi dimenticati delle case di riposo, o in quelli delle loro abitazioni frequentate quotidianamente dai lavoratori stranieri che li accudiscono, non li ha salvati più di tanto. Ovvero, ne ha salvati tantissimi, ma molti no. La fragilità di queste persone si incontra talvolta con la fragilità di territori che non sono sicuramente “friendly” con loro (come questa parola ha ora perso di senso…), ma che neanche costituiscono più una rete finale di supporto. Alcuni testimoni mi hanno raccontato che tra le prime vittime del virus ci sono stati tanti anziani che ancora vivevano attivamente la comunità nei territori in cui vivevano: quei territori di mezzo, sospesi tra metropoli e paese, che per lunghe settimane  sono stati terreno di caccia del virus. Quanti di noi hanno seguito l’evolversi di queste comunità, la loro resilienza? Quanto di noi conoscono che aspetto ha assunto la città, o l’urbano se preferite, agli occhi dei nostri anziani, che peraltro rappresentano ormai il 35% della popolazione complessiva? E ancora: come non farsi interrogare dalle centinaia di morti nelle case di riposo, luoghi dimenticati da tutti, oggetto di disinvestimenti pubblici da diversi decenni? Quali alternative sono date oggi a chi non può più, oppure non vuole, restare da sola/o in casa con la badante? E quale situazione sperimentano i lavoratori della cura, dentro le abitazioni e fuori di esse? Quali spazi per l’abitare esistono, e come si può studiare e progettare per migliorarli, renderli magari anche più sicuri senza far perdere le possibilità residue di autonomia e di socialità? Quali tecnologie, oggi più che mai necessarie, sono applicabili e integrabili negli spazi della vita quotidiana,  ma anche negli spazi della cura e dell’assistenza? Infine, dove ero io? Dove eravamo noi? Che cosa stavamo osservando? Perché non ci siamo accorti sino in fondo dell’emergenza sociale che questa problematica ci pone? Perché mi sveglio, ci svegliamo, solo ora, davanti ad una strage senza precedenti?

Non ho risposte a queste domande. Solo un grande desiderio di ripartire. Con uno sguardo diverso però.

Il virus minaccia valori civili e libertà di pensiero. Non si salvano da soli, tocca a noi

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Paolo Pileri

Data:

28 Marzo 2020

Potrà sembrare strano che in un momento come questo, dove ogni sera contiamo i morti e li piangiamo, mi metta a scrivere di altro: di libertà di stampa, di tutela del pluralismo, di protezione del pensiero. E invece è proprio questo il momento.
Siamo tutti più attaccati alla vita che alla morte, è il nostro istinto, ma siamo umani e viviamo in un ambiente complesso che si chiama società. Ci abbiamo messo decenni, secoli e guerre per generare e difendere un’idea di società dove le libertà con i conseguenti diritti civili fossero un pilastro intoccabile, dove il pluralismo un valore, dove non dovevamo nasconderci se avevamo un’idea diversa dal pensiero dominante.

Anche se tutto ciò è stato continuamente minacciato e in parte pure eroso, noi continuiamo a difenderlo. Perché? Perché vogliamo che sopravviva più che noi stessi. Vogliamo che chi viene dopo di noi trovi quel corredo di valori civili, sociali e democratici più robusto di come l’aveva trovato suo padre e suo nonno che hanno lottato con il loro sangue per quello. In questa furia che è Covid-19 stanno accadendo cose terribili e preoccupanti, oltre le morti. E forse, lasciatemelo dire, perfino più preoccupanti delle morti. Quelle un giorno finiranno e allora noi dove saremo? Da dove ripartiremo? Solo se i valori di libertà e democrazia saranno intatti, noi avremo buone basi per ripartire. Altrimenti ci ammazzeremo tra noi, non so con quali armi. Altrimenti avremo giorni bui, forse più di questi. E le basi di ripartenza sono da proteggere oggi.

Questo virus sta uccidendo l’economia, diciamo tutti. Ma quale economia? Dicono in pochi. I governi parlano di massicci aiuti all’economia per farla ripartire. Ma a quale economia? A tutti? Indifferentemente? Ai più forti? Ai più deboli? A chi? Covid-19 sta asfaltando tante economie, ma sicuramente quel tessuto molecolare che da sempre anima il pluralismo della ragione economica italiana sarà la prima vittima. E sarà dura che torni se non la si mette ora in sicurezza. Piccoli artigiani, piccoli professionisti, piccole attività commerciali che già faticavano, soffocate dai grandi sempre più grandi e scaltri, potrebbero sparire per sempre. E con loro sparisce quel poco di linfa che ancora teneva in vita i già flebili territori più lontani dalle città. Subito dopo sarà la volta di quei paesi, di quei villaggi, di quelle aree interne.

Ma c’è un settore, delicatissimo e cruciale, che mi preoccupa più degli altri, ed è quello della piccola editoria, dei piccoli giornali, delle piccole riviste. Ancor più quegli editori che si sono sempre battuti con le unghie e con i denti per rimanere indipendenti. Hanno sempre vissuto di poco e sempre sul filo del rasoio. Ogni fine mese pareva sempre accorciarsi. Eppur si resisteva. La loro resistenza, anche se noi non lo vedevamo, era anche la nostra resistenza perché negli anni hanno tenuto in vita il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa al di là del pensiero dominante. E tutti noi ne abbiamo goduto anche se poco li abbiamo ringraziati. Hanno garantito voce a chi voce non riesce ad avere. Hanno aperto dibattiti che sarebbero rimasti sepolti. Hanno proposto punti di vista che avremmo perso nel fango delle solite cose. Se ho potuto parlare di suolo e di difesa della terra, è anche -e molto- perché loro hanno dato spazio a quel tema quando altri, i più forti, neppur mi rispondevano alle mail.

Loro hanno cantato la libertà di pensiero, anche se spesso era stata già ingabbiata da quelli che la ferivano a morte dicendo che la “necessità non ha legge” e che ora, magari, si sfregano le mani in qualche chat. Quella libertà di pensiero, custodita tra le vite dei piccoli editori, ora è minacciata pesantemente dal virus. Le sacrosante parole dell’articolo 21 della nostra Costituzione, “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, va difeso ora per domani perché se è vero che tutti hanno quel diritto, è anche vero che quel diritto non sopravvive da solo in questo incendio. Piero Calamandrei spiegava agli studenti il sacro compito di difendere la Costituzione, prendendone una copia e sbattendola a terra. A loro diceva che la Costituzione, e i suoi valori, non si sarebbe mai salvati da soli, ma solo con le loro mani e le loro menti. Non potranno difenderla i morti di Covid-19, tocca a noi, vivi, doverla difenderla. Noi parlanti e scriventi e non quelli che se ne stanno zitti, in attesa non si sa di che cosa.

È ora, con i piedi nelle macerie, che i i decisori politici devono occuparsene anziché blaterare propagande elettorali. Questo è il momento di mettere al sicuro i valori civili e sociali più preziosi. Se questo incendio devastante si porta via anche tutto quel che di migliore abbiamo messo per fare quel pavimento di valori sul quale oggi camminiamo, sarà durissima fare i prossimi passi. Bisogna scegliere chi salvare per primo. Se si lascia al caso, si lascia alla legge dell’egoismo e della speculazione. E queste non promettono giorni migliori dell’assaggio di privazione di libertà che viviamo oggi.

 

pubblicato il 28 marzo online sul sito altreconomia.it
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Non si potrà tornare a quella “normalità”

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Paolo Pileri

Data:

24 Marzo 2020

È l’ora di prepararsi a un altro modello socio-economico
Caro direttore, «Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema», è una frase che non mi esce dalla testa. In questi giorni, sbarrati in casa, spero che a nessuno sfugga l’importanza della riflessione sul post-Covid. I discorsi istituzionali ci annunciano privazioni sempre meno sopportabili in cambio di un “fuori dal tunnel” dove ci riabbracceremo, ci stringeremo la mano e torneremo in piazza. Mi chiedo: è questo davvero quel che speriamo per il domani? Tornare da dove siamo partiti? Ai virus culturali che avevamo? Io non voglio tornare da dove ero partito. Certo, il Paese in ginocchio che troveremo non sarà quello di prima. E bisognerà rimboccarci le maniche. Ma per andare verso quale direzione? La stessa di prima? Questa è una domanda che abbiamo il dovere di farci oggi, pur tra le lacrime. È ora il sacrosanto momento nel quale elaborare il lutto di un passato politico ed economico che ci ha consegnato a una normalità che normalità non era affatto. Lo capiamo? Ce ne convinciamo? Ora abbiamo bisogno di riflettere sul fatto che la normalità era il problema, altrimenti al prossimo giro di virus saremo ancora più deboli. Tutto quel che la normalità respingeva, dagli accordi sul clima, agli investimenti in sanità pubblica, allo stop al consumo di suolo e al traffico, alla tutela della biodiversità, agli investimenti in ricerca, cultura e manutenzione del Paese, a incentivare la buona agricoltura (e non l’altra), al dare dignità al lavoro sconfiggendo la mentalità che “fare il nero è necessario”, all’economia circolare e fondamentale al posto della tradizionale, al perseguire corruzione e furbizia “senza se e senza ma” e così via, deve ora essere messo in cima all’agenda pubblica di una normalità che va costruita proprio ora, nelle macerie in cui siamo. Altro che balconi, tarallucci e vino. Pensate che mentre siamo qui, convintamente a casa a fare la nostra parte, ancora ci dicono che è normale che la Borsa rimanga aperta e i Parchi chiusi. Io non voglio risvegliarmi con quella normalità.

 
Pubblicato sul Quotidiano  Avvenire il 24 marzo 2020

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Periferie urbane: caratteri, geografie, politiche (dopo il Coronavirus)

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Gabriele Pasqui

Data:

20 Marzo 2020

Quali effetti lascerà la drammatica crisi del Coronavirus sulle periferie urbane delle città italiane? Quanto gli inevitabili impatti della pandemia sull’economia, sulla società, ma anche sulle culture e sugli immaginari segneranno il destino di coloro che abitano le aree più critiche delle nostre città? In che modo le politiche pubbliche dovranno farsi carico di questi effetti, e attraverso quali dispositivi potranno intervenire efficacemente?

Prima di provare a dare qualche risposta, del tutto tentativa data la grande incertezza nella quale versiamo e che non permette di cullarsi in certezze e di evocare ricette sicure, vorrei osservare che già ora gli effetti dell’epidemia hanno una flessione peculiare, e spesso ancor più drammatica, nelle nostre aree periferiche. Innanzitutto, perché nelle periferie urbane si concentra una quota rilevante della popolazione fragile, che ha perso un lavoro già precario e che rischia di trovarsi in condizioni di disoccupazione strutturale. Il lavoro precario e sommerso, quello meno tutelato, è per ovvie ragioni la prima vittima dell’attuale crisi, e la perdita di una occupazione, per quanto instabile, costituisce spesso per individui e famiglie un primo passaggio dell’attivazione di un circolo vizioso che spesso coinvolge in seguito la condizione abitativa. Senza lavoro e senza casa: ecco la condizione nella quale potrebbero trovarsi collocati molti nuclei familiari, ma anche molti singoli (si pensi ai giovani stranieri finora occupati nei comparti più bassi e meno tutelati dei servizi) tra qualche settimana o tra qualche mese.

L’altra dimensione nella quale è già oggi evidente la differenza tra aree più ricche e aree periferiche o marginali è quella della scuola. Il drastico passaggio alla didattica a distanza è meno facile in quelle scuole, soprattutto primarie e secondarie di primo grado, nelle quali il capitale sociale e culturale, ma anche le dotazioni tecnologiche minime, sono inferiori. Si pensi ai bambini e ragazzi stranieri da poco arrivati in Italia e che non parlano bene la nostra lingua o alle famiglie che non sono in grado di garantire una sufficiente copertura in termini di connettività per i limitati device posseduti; inoltre, le scuole nelle quali le dotazioni tecnologiche sono molto limitate subiranno un contraccolpo fortissimo, in termini di aumento dell’abbandono scolastico, difficoltà di recupero da parte di studenti che non sono in grado di seguire le attività in remoto, ulteriore ghettizzazione di plessi scolastici.

Infine, non possiamo dimenticare i rischi dal punto di vista della manutenzione ordinaria delle case, dei servizi pubblici e assistenziali, degli spazi collettivi, che rischiano fenomeni di vero abbandono e nei quali il degrado materiale facilmente lascia spazio all’impoverimento delle relazioni sociali.

Come affrontare questi problemi? La prima mossa è una rivisitazione della stessa nozione di periferia urbana, che sia in grado di identificare con precisione i luoghi e i contesti nei quali dovrà concentrarsi maggiormente l’azione pubblica. Non possiamo permetterci, data la necessità di risorse ingenti che l’uscita dalla crisi richiederà, di sprecare energie dove ce n’è meno bisogno.

Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di periferie? Come ha mostrato Agostino Petrillo (2018), la nozione di periferia, e con essa la delimitazione delle aree periferiche costituisce un complesso problema di ricerca. Da questo punto di vista, i recenti tentativi condotti nel nostro Paese per determinare le unità territoriali minime di indagine e per caratterizzare anche in senso statistico le forme territoriali del disagio socio-economico delle aree urbane permettono di evidenziare alcuni snodi problematici.

Mi limito qui a richiamare sinteticamente due lavori di grande importanza.  Il Dipartimento per le politiche di sviluppo ha costruito delle “mappe della povertà”, individuando in ciascuna delle 14 aree metropolitane riconosciute dal legislatore sub/aree o quartieri di concentrazione del disagio, al fine di classificarne e tipizzarne le caratteristiche e di fornire uno strumento operativo a supporto delle politiche urbane e della progettazione locale (DPS, 2017).

ISTAT, sulla base di una sollecitazione emersa dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, ha prodotto e calcolato per i comuni capoluogo delle 14 città metropolitane un indicatore di “vulnerabilità sociale e materiale”, costruito attraverso la sintesi di indicatori diversi e orientato a produrre una rappresentazione unitaria e georeferenziata delle diseguaglianze in ambito urbano (ISTAT, 2017).

Si tratta di due tentativi di grande importanza, in quanto permettono di ragionare sulla base di dati accurati e confrontabili e di definire in modo preciso le diverse variabili in gioco. Inoltre, entrambi i lavori assumono alcuni principi guida, che fanno emergere anche una teoria implicita della natura delle disuguaglianze spazialmente concentrate nelle aree urbane. In primo luogo, la povertà monetaria (assoluta o relativa) viene strettamente connessa alle povertà abitative. In secondo luogo, la condizione di perifericità viene intesa come un fenomeno multidimensionale, nel quale giocano un ruolo la vulnerabilità sociale, connessa alla precarietà della condizione lavorativa; il livello e la qualità della scolarizzazione e più in generale della formazione; l’accessibilità dei servizi e i potenziali di mobilità. Infine, il degrado edilizio e le connesse fragilità nella condizione abitativa costituiscono una buona approssimazione delle variabili ambientali che connotano i quartieri e le aree a più alta deprivazione.

Questi approcci, estremamente utili, devono tuttavia essere integrati da uno sguardo qualitativo e più ravvicinato, che tenga in considerazione la dimensione processuale delle dinamiche in atto nelle aree periferiche. Le città italiane, nel corso dei decenni, hanno più volte ridisegnato la geografia delle proprie periferie, in relazione a processi demografici, sociali e territoriali che devono essere analizzati approfonditamente. Si tratta cioè di rifinire la “grana” spaziale delle condizioni di disagio e di conseguenza delle diseguaglianze. Nel tempo, molte aree periferiche sono state “inglobate” nella città, e talora sono state soggette a dinamiche importanti di miglioramento. D’altra parte, vi sono quartieri, ma anche porzioni all’interno di un singolo quartiere, nelle quali si sono generate condizioni di causazione cumulativa che hanno condotto a fenomeni di filtering down. Inoltre, i luoghi di maggiore disagio oggi spesso sono prossimi al centro cittadino, concentrati in “nicchie territoriali” (uno stabile, alcune vie, un antico insediamento, un’area prossima alla stazione ferroviaria, …) che spesso sono difficilmente rilevabili a livello statistico e che non sono comunque riconducibili alla tradizionale geografia dei quartieri. Da questa prospettiva è necessario disaccoppiare, anche nell’immaginario, periferie urbane e quartieri di edilizia residenziale pubblica. Oggi alcune delle situazioni più sfidanti riguardano quartieri o sezioni urbane nelle quali prevale l’edilizia privata, dove la sostituzione della popolazione residente e la crisi del mercato urbano hanno generato condizioni abitative e di vulnerabilità sociale spesso esplosive.

In secondo luogo, e proprio per essere in grado di cogliere luoghi e situazioni di maggiore disagio, è indispensabile ragionare sulla fortissima connessione tra mutamento demografico e condizione periferica. Le periferie urbane sono i luoghi nei quali si concentrato maggiormente i tre processi connotanti le dinamiche demografiche italiane: l’invecchiamento della popolazione autoctona, la presenza rilevante di popolazione immigrata (regolare e non), la disarticolazione delle famiglie. Le dinamiche demografiche nelle aree periferiche sono troppo importanti per esser ignorate: è proprio la presenza congiunta di una popolazione italiana invecchiata, di una popolazione straniera giovane e precaria e di famiglie per nulla tradizionali a rendere più difficili le condizioni di coesione sociale e ad aumentare la percezione di insicurezza.

Tale percezione è un tema fondamentale, anche nella prospettiva della costruzione di politiche, progetti e programmi che siano in grado di ridare fiducia agli abitanti delle aree più degradate. Sempre più spesso il racconto delle periferie coincide con la narrazione dell’insicurezza, a sua volta radicata dentro i processi demografici ed economico-sociali, soprattutto in termini di precarizzazione del lavoro. Investire sulla dimensione della sicurezza, prima di tutto sociale, è dunque essenziale.

Infine, non può essere sottaciuta la rilevanza della dimensione narrativa e simbolica dei processi in base ai quali si determinano condizioni di stigmatizzazione e auto-stigmatizzazione delle periferie. Si comprende poco delle periferie, e del nesso tra questi spazi e la concentrazione delle diseguaglianze, se non si traguarda lo sguardo anche alle narrazioni, alle storie, al modo in cui le immagini si sedimentano nel tempo. Le periferie sono spesso luoghi che gli abitanti percepiscono come un destino ineluttabile, magari anche come ambiti di espressione di una profonda alterità sociale e culturale. Questa percezione “destinale” dell’abitare “in periferia” costituisce una trappola talvolta più insidiosa di quella della povertà monetaria o abitativa.

In quali direzioni dovrebbero dunque muoversi le politiche pubbliche per contrastare gli effetti dell’epidemia nelle periferie urbane? Innanzitutto, attraverso la capacità di riconoscere con precisione le geografie del disagio e la natura multidimensionale dei problemi.

In secondo luogo, seguendo ad esempio le indicazioni offerte dall’Associazione Urban@it – Centro nazionale di studi sulle politiche urbane, assumendo un approccio che sia capace di mettere al lavoro le risorse locali, secondo un approccio integrato e place-based, e di veicolare efficacemente risorse e strumenti di politiche regionali, nazionali ed europee (Urban@it, 2020).

Infine, ponendo al centro dell’attenzione alcune priorità. La prima è il consolidamento, l’irrobustimento e l’infrastrutturazione della rete dei servizi fondamentali nelle periferie urbane, partendo dalle urgenze e dai bisogni ineludibili delle persone e dalla necessità di aumentare la qualità della loro vita. Presidi socio-sanitari, istruzione e formazione, casa (anche attraverso la sospensione dell’esecutività degli sfratti), accesso semplice e a basso costo alle reti telematiche, mobilità pubblica e sostenibile, protezione civile e cura del territorio devono essere posti al centro di azioni capaci anche di generare nuova domanda di lavoro, soprattutto per le fasce che più risentiranno degli effetti della pandemia.

La seconda è l’attivazione di un programma di manutenzione straordinaria delle periferie urbane, promuovendo la piena connettività e la messa in sicurezza di queste aree, spesso le più soggette ai rischi territoriali, attraverso un piano di “piccole opere” che avrebbero anche il pregio di essere rapidamente attivabili e di implicare processi produttivi ad alta intensità di lavoro, la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato, in particolare se legata all’offerta di case in affitto concordato o sociale.

La terza è l’attivazione di progetti territoriali e sociali che facciano leva sulle infrastrutture pubbliche esistenti, a partire dalle scuole, che sono palestre straordinarie di innovazione sociale, di sperimentazione di una agency basata sulla gratuità, nelle quali la mobilitazione volontaria e l’impegno sociale trovano un ambiente privilegiato di manifestazione. Per muoversi in queste direzioni, tra loro connesse, è necessario che investimenti e politiche per le scuole e, in particolare, per il patrimonio dell’edilizia scolastica assumano i caratteri di progetti integrati di rigenerazione e sviluppo. Queste iniziative assumerebbero il ruolo che hanno avuto gli interventi integrati place-based nel contesto delle politiche di coesione. In analogia con tali politiche, si potrebbero immaginare dei “Contratti di scuola”, sull’esempio dei “Contratti di quartiere”, favorendo l’accesso al finanziamento anche da parte di plessi scolastici che versano in situazioni di deprivazione materiale e tecnologica e di scarsa manutenzione o che sono collocate in contesti urbani particolarmente disagiati.

Inutile dire che, da sole, queste iniziative non sono sufficienti. Politiche per la casa in affitto, politiche attive del lavoro, politiche dei redditi devono necessariamente essere disegnate e implementate ad una scala più ampia. Tuttavia, è fondamentale che anche le politiche europee, nazionali e regionali (ad esempio, con la ripresa e la rivisitazione di uno strumento come il PON Metro, Programma Operativo Nazionale “Città Metropolitane 2014 – 2020”) siano in grado di riconoscere le specificità dei contesti periferici urbani, favorendo iniziative dal basso in una prospettiva di sburocratizzazione e di semplificazione amministrativa.

Non sarà facile; ma solo a queste condizioni potremo almeno ridurre i rischi che il conto della pandemia sia pagato dai più poveri e dai più deboli, che spesso, nelle aree urbane, si concentrano proprio nelle aree periferiche.

 

Riferimenti bibliografici
DPS (2017), Poverty Maps. Analisi territoriale del disagio socio-economico delle aree urbane, Roma.
ISTAT (2017), Materiali per la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, Roma.
Petrillo A. (2018), La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, Franco Angeli, Milano.
Urban@it (2020) V Rapporto sulle città italiane. Politiche urbane per le periferie, a cura di G. Laino, il Mulino, Bologna.

Genova: La periferia ai tempi del virus

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Agostino Petrillo

Data:

18 Marzo 2020

Nei quartieri dei ricchi non canta nessuno. Trincerati negli ampi appartamenti in cui vivono per lo più da soli gli anziani genovesi non escono, spediscono badanti munite di mascherina a fare la spesa (con parsimonia, i supermercati sono pieni come al solito, mancano solo i prodotti in offerta). Le spiaggette rocciose che costeggiano e delimitano i quartieri alti, in genere frequentate da bagnanti di lungo corso per buona parte dell’anno, sono insolitamente vuote e prive di vita, fatto salvo per le seconde case di lombardi fuggiti, di colpo aperte dopo anni di quasi completa chiusura, finalmente popolate, con le finestre spalancate nel clima mite e il vociare di un accento insolito. Il clima che si respira è quello   immortalato da James Ballard in Kingdom Come, solo che qui l’incubo che avrebbe dovuto risvegliare i suburbs dal loro velenoso torpore è finalmente arrivato. Il deserto sociale dei “quartieri morti”, come li ha definiti un  vecchio sociologo genovese,  si palesa in tutta la sua evidenza.

Diversamente nel centro storico si canta e si suona, “Good Morning Genova”, un social attivato dai Giardini Luzzati, storica struttura territoriale dell’Arci, fa circolare notizie e permette contatti tra le persone, da finestra a finestra fluisce la musica. Ma si sa in centro c’è la gauche caviar, ci sono gli intellò benestanti…Retorica reazionaria certo, in realtà è la residua mixité della città vecchia a  rendere le giornate di reclusione meno pesanti e ad alimentare questi circuiti amicali “resilienti”.

Nella periferia che cresce e ormai assedia la città, inglobando anche zone un tempo abitate in gran parte da  ceto medio e aristocrazia operaia, come il quartiere di Sampierdarena, pure si canta, ma poco, ed è un canto spesso stonato. Così come si vedono poche bandiere italiane esposte sui balconi  nell’ora della rinazionalizzazione da virus e degli “andrà tutto bene” di maniera.

Il silenzio regna pressoché ovunque, ma è un silenzio carico di significato, parla di difficoltà enormi, di ansia, di solitudine.

La solitudine di chi è povero e marginalizzato viene amplificata dalla reclusione forzata. Gli hard discount che punteggiano la periferia hanno esaurito le scorte di wurstel e di scatolame da poco. Al supermercato di Cornigliano una scritta avvisa che i prodotti verranno presto reintegrati.

Parti di città in cui vivono pensionati con la minima, anziani senza assistenza, homeless da tempo in moltiplicazione, disabili, e che regione e comune hanno in buona parte abbandonato alle cure pietose di un non meglio definito e improvvisato volontariato “autocertificato” (“…sono già 250 i volontari…” gongola in televisione il governatore della regione). Ma non sono solo le fasce “storiche” del malessere a sperimentare enormi difficoltà, la quarantena di massa colpisce anche disoccupati, precari, colf in nero e “partite Iva” che si trovano di colpo senza lavoro. Confinati e dimenticati sopravvivono malamente, affidandosi a piccole solidarietà di vicinato, mentre vedono di giorno in giorno assottigliarsi i risparmi. Quartieri in cui in questi giorni il senso di solitudine e di desolazione diviene quasi tangibile per la mancanza di vita, si rimpiange perfino il traffico. Nel frattempo la città regala giornate bellissime di una primavera anticipata, di cui pochi possono godere. Mentre mi avvio verso la periferia sul bus che porta in Valpocevera, la zona su cui sto lavorando, ripenso ai teorici della società del rischio, che ci hanno insegnato che  nei “grandi rischi”si è sempre tragicamente soli, lontani rimangono i governi, capaci tutt’al più di osservare e rassicurare.

Attraversare, senza autocertificazione (nel caso mi fermassero…”vado a fare la spesa alla Coop”, difficile spiegare che sto chiudendo una ricerca) in questi giorni le periferie genovesi è una esperienza interessante, che dice molto di quello che solitamente non si vede tanto è quotidianamente visibile, ma che assume una evidenza nuova nella città semideserta.

 Prima di tutto i paesaggi. Mentre l’autobus procede attraverso i canyons urbani delle aree dismesse e degli edifici abbandonati torna la sensazione forte che avevo quando insegnavo da queste parti venti anni fa, che qui sia stata combattuta e perduta una guerra. Genova ha perduto la guerra della globalizzazione e l’ha perduta male. Processi di violenta e rapida deindustrializzazione ne hanno fatto una shrinking city ante-litteram, già a partire dalla metà degli anni Settanta. Una spirale di trasformazioni violente ha dettato con durezza i tempi e le modalità del cambiamento. Tra le rovine della città sconfitta, tra il demolito e il ricostruito, tra le memorie di un passato scomparso che fanno da sfondo muto, ecco spuntare i pezzi del nuovo ponte, con la loro aria finta, quasi posticcia. Ma non è l’unico landmark significativo. Mano a mano che il bus procede sfilano tutta una serie di progetti e sogni di città falliti, di cui rimangono sul territorio i cascami:  capannoni con il tetto sfondato per non pagare l’ICI, edifici abbandonati, terrains vagues, patetici orticelli domestici, che vuoti di presenze umane risaltano in tutta la loro approssimazione e casualità, e ci parlano di un mediocre bricolage urbano sorto sull’assenza di un progetto di più ampio respiro.

Poi gli esseri umani: sul mezzo pubblico pochi anziani con borsoni della spesa stracolmi, qualche migrante dall’aria impaurita e disorientata, con l’aria di chi non sa bene dove andare, un paio di tossici a rota in cerca di roba.  Per strada non si incrociano i runners dei quartieri alti, ma figure dimesse che si avviano rapidamente verso casa.

Anche io rientro appena possibile. Da oggi verranno diradate anche le corse degli autobus. Accentuando così ancora di più isolamento, mancanza di servizi, mali storici di queste zone.

Eppure gli studi sul tema lo dicono chiaramente: le zone periferiche non solo sono quelle più alto rischio sotto il profilo del contagio, date le condizioni di vita e i redditi, ma anche sotto il profilo sociale sono quelle che ne risentono maggiormente. Il diffondersi del morbo rafforza le disuguaglianze già esistenti in termini di accesso ai servizi e alle infrastrutture della mobilità. Intere zone vengono disconnesse dalle reti della comunicazione e dei trasporti, con conseguenze pesantissime. Basterebbe pensare a un quartiere come Begato, tardo frutto della edilizia pubblica, arrampicato su di una collina , servito da un solo bus,  e già definito una decina di anni fa da una ricerca della Caritas: “una discarica” tanti e tali erano in problemi che vi erano stati  concentrati. Qui la città è già ora lontanissima, e rischia di esserlo sempre di più, mentre i reiterati appelli che giungono dalle autorità invocando alla mobilitazione dal basso per sopperire alle difficoltà dei più deboli hanno buone probabilità di rimanere lettera morta.

La crisi inoltre mette alla prova l’arte del governo, l’articolarsi della governance locale nei suoi diversi  livelli: non solo scava ed evidenzia discrepanze tra governo, regioni, amministrazioni comunali riguardo alle modalità di operare, ma crea anche ulteriori differenziazioni all’interno delle città: una cosa è provare a gestire i problemi  dei negozi del centro, altra misurarsi con la situazione delle periferie. Si parla di zone già da tempo penalizzate dal crollo del ponte Morandi, a lungo rimaste completamente chiuse al traffico o relativamente impraticabili, in cui le attività sopravvissute agli sconvolgimenti degli ultimi due anni languiscono, e i residenti si impoveriscono ulteriormente. Chi aveva retto finora è sgomento di fronte a questa nuova mazzata. Cresce il risentimento verso chi amministra: i pressanti inviti solidaristici che giungono dall’alto non cancellano il ricordo del modo ineguale in cui è stato speso il denaro pubblico, degli ospedali chiusi o smembrati nel ponente, ignorando le proteste degli abitanti per i quali costituivano un riferimento, con una maniera di procedere al crocevia tra arroganza, trascuratezza e  fanatismo liberista. Qui nessuno assalta il pronto soccorso, come è avvenuto più volte a Napoli, ma nel momento della difficoltà tutti rimpiangono i piccoli ospedali di zona che svolgevano un servizio importantissimo, soprattutto per gli anziani, mentre le autorità in difficoltà avviano il bizzarro progetto di ricavare una quarantina di posti letto emergenziali in un traghetto da adibire a nave-ospedale.

Nei giorni del morbo nella periferia desertificata resistono tenacemente alcune isole: storiche reti solidali, che in buona parte affondano le loro radici in un secolare associazionismo operaio, comitati per la difesa del territorio, qualche dirigente scolastico coraggioso che fa della sua scuola un punto di riferimento, sindacati di base e centri sociali. E’ poco, ma forse di qui si può ricominciare. Ma qualunque sia il “dopo”, e qualunque sia il “quando”, non sarà certo facile ripartire. La periferia genovese, con le sue peculiarità di periferia anomala, nata come “intarsio”, a partire da realtà comunali preesistenti, forzatamente rifusa e annessa alla “Grande Genova” dal fascismo nel 1926, si mostra in questo momento storico drammatico nella sua nudità, come una sommatoria di luoghi disconnessi e residuali,  margine di un centro che non esiste, se non come  sempre più remoto riferimento storico e geografico. Un mondo smarrito e in disgregazione, in cui regna un silenzio che più che  rassegnazione è forse già minaccia.

Pandemia e territori fragili: prime riflessioni

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Gabriele Pasqui

Data:

18 Marzo 2020

Lo capiamo di ora in ora, di giorno in giorno: nulla sarà come prima.

Anche quando l’onda del Covid_19 si sarà ritirata, le forme e le pratiche della vita quotidiana, l’organizzazione del lavoro, i processi produttivi e della distribuzione, le interconnessioni globali e le relazioni geopolitiche, non potranno ritornare allo stato antecedente.

Per noi che ci occupiamo di spazio e società, di architettura, territorio, paesaggio e ambiente si tratta di una sfida rilevante, che ci chiede immaginazione e capacità di produrre conoscenza utilizzabile, non potendo purtroppo aiutare in prima linea.

Vedo almeno tre terreni di lavoro importante.

Il primo riguarda la comprensione degli effetti del virus nei diversi territori, e il modo in cui i territori forniscono al virus prese o resistenze. E’ stato osservato, tra gli altri da Arturo Lanzani, che il virus in Italia appare per ora aggressivo in quella che lui chiama Italia di mezzo. Vò, Codogno, la bergamasca. Ma anche la martoriata città di Bergamo, Cremona, per stare solo alla Lombardia. Città medie, urbanizzazioni periurbane e diffuse e campagne abitate: i luoghi dello sviluppo spesso insostenibile del nostro Paese nel ciclo lungo della crescita economica e insediativa. Vedremo gli effetti nelle grandi aree urbane, ma certamente già sappiamo che le diseguaglianze sociali e spaziali, i divari di capitale sociale e culturale, saranno un fattore decisivo di intensificazione o diradamento degli effetti del virus. Per non parlare del nesso tra luoghi interni dell’abitare (la casa, piccola o grande, che permette o meno un relativo isolamento, etc..). La aree interne, le montagne, i borghi spopolati, i luoghi dell’Italia più fragile appaiono oggi i meno colpiti in ragione della bassa densità, ma forse è una impressione.

Dunque, è importante che la nostra lettura dei territori e dei paesaggi metta al lavoro una comprensione dei nessi tra il virus, i divari territoriali, le dinamiche dello sviluppo, le forme di vita all’intersezione tra spazio e società. Capire la dimensione spaziale e territoriale di un agente invisibile è difficile, ma è insieme indispensabile per ragionare sugli effetti.

Dunque, le nostre geografie dei territori fragili dovrebbero essere usate per ragionare sul modo in cui il virus agisce sulle persone, sulle famiglie, ma anche sulle economie e sulle pratiche, anche rispetto al tema, che va trattato con molta cura e senza deviazioni ideologiche, degli effetti di confinamento, normalizzazione, riduzione delle libertà nell’uso dello spazio (ne avevano parlato Gaeta e Bolocan in un articolo uscito su Repubblica).

Un secondo terreno riguarda le politiche per il dopo-virus. Su questo punto possiamo fare molto, anche sulla base delle nostre ricerche in atto e dello sforzo che stiamo facendo nell’ambito del Progetto Dipartimento di Eccellenza “Fragilità territoriali”.

Non possiamo immaginare ancora pienamente gli effetti che avrà sull’economia italiana e mondiale l’epidemia in corso, ma sappiamo che saranno certamente drammatici, e che necessariamente anche le politiche urbane e territoriali, a scala regionale, nazionale e comunitaria dovranno tenerne conto.

Da questo punto di vista è decisivo che le azioni che verranno intraprese, a emergenza finita, siano in grado di porsi congiuntamente tre obiettivi di carattere generale:

  1. favorire la ripartenza dell’economia, ed in particolare dei settori che saranno maggiormente penalizzati dalla crisi in atto (turismo, cultura, spettacolo e intrattenimento, commercio non alimentare, settori export led, filiere produttive manifatturiere, edilizia, …), attraverso un sostegno diretto agli investimenti che favorisca anche una rapida inversione delle aspettative e del clima economico complessivo, sapendo però il virus probabilmente introdurrà alcuni cambiamenti strutturali nelle forme di organizzazione della produzione e del lavoro;
  2. promuovere attraverso investimenti di carattere strutturale un nuovo modello di sviluppo centrato sulla conversione ecologica dell’economia, sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale e sensibile alla transizione climatica, evitando con ogni mezzo che gli investimenti per la ripresa reiterino un modello di sviluppo largamente insostenibile per il nostro Paese e per l’Europa. Ad esempio, è fondamentale che una grande operazione di manutenzione straordinaria del Paese non sia incardinata sulla realizzazione di grandi opere, ma in prima istanza sulle piccole infrastrutture e sulle opere di manutenzione e riqualificazione che migliorano qui e ora la qualità della vita dei cittadini e che possono essere anche avviate e realizzate in tempi brevi. D’altra parte, tale modello di sviluppo dovrà necessariamente farsi carico dell’infrastrutturazione digitale del territorio e della dotazione di servizi connessi (telemedicina, smartworking, ecc.) in bilico tra sviluppo economico, riduzione delle diseguaglianze e tutela della privacy;
  3. utilizzare la programmazione per ridurre i divari tra le diverse parti del paese, tra macroregioni, tra i differenti territori fragili, all’interno di esse e nell’ambito di ogni territorio, ivi comprese le aree urbane, ponendo come  obiettivo prioritario il sostegno dei gruppi e dei ceti sociali più marginalizzati e più penalizzati dalle conseguenze dell’epidemia in corso. Con una doppia attenzione: ai singoli e ai gruppi gravemente svantaggiati, quando non in condizione di povertà assoluta (sarà probabilmente il caso dei lavoratori precari del terziario “basso” nei servizi urbani), ma anche ai gruppi e ai ceti che rischiano un drastico impoverimento e una forte crescita della vulnerabilità.

Per perseguire questi obiettivi, con riferimento in particolare alla dimensione della coesione sociale e territoriale, è fondamentale promuovere l’implementazione di tre strategie, tra loro correlate:

  1. la riconversione ecologica delle economie di territorio, attraverso interventi di carattere infrastrutturali capaci, nelle diverse situazioni e contesti, di promuovere il rilancio delle economie locali attraverso il riorientamento dei prodotti, dei processi e delle filiere, che tenga conto anche della necessaria crescita delle attività in remoto e su piattaforme digitali. Questa riconversione può interessare sia settori come il turismo, sia filiere manifatturiere, attraverso processi di infrastrutturazione digitale, efficientamento e risparmio energetico, sperimentazioni sul fronte della logistica e del trasporto merci, innovazioni di prodotto nella direzione del riuso e del recupero (ad esempio nell’industria chimica e nella filiera della plastica). In questo contesto è inoltre decisivo il sostegno alle politiche urbane per la resilienza al cambiamento climatico, attraverso l’innovazione delle tecnologie in campo energetico nell’edilizia, della mobilità pubblica e privata, della riqualificazione delle infrastrutture blu e verdi, anche in chiave di contrasto alle fragilità idrogeologiche, della rigenerazione del patrimonio dismesso o sottoutilizzato, evitando con ogni mezzo ulteriore consumo di suolo non urbanizzato;
  2. un grande piano nazionale di manutenzione straordinaria del territorio italiano, con particolare riferimento ai territori fragili (periferie urbane, aree dell’Italia di mezzo a rischio di desertificazione produttiva e di spopolamento, aree interne). Questa strategia dovrebbe innanzitutto promuovere la messa in sicurezza del territorio, attraverso un piano nazionale di piccole opere che avrebbero anche il pregio di essere rapidamente attivabili, la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio, la presa in carico e l’infrastrutturazione leggera delle aree che maggiormente contribuiscono alla produzione di servizi ecosistemici, la promozione di infrastrutture per la mobilità lenta e ciclabile che possano diventare anche dispositivi per la promozione di progetti di sviluppo di scala territoriale, e così via;
  3. una politica integrata per la riqualificazione e rigenerazione del patrimonio pubblico del cosiddetto “welfare materiale” (case, scuole, presidi sanitari, impianti sportivi, altri servizi territoriali, parchi e aree verdi), attraverso il sostegno a progetti locali integrati che facciano perno su questo patrimonio come strumento di integrazione sociale e di riqualificazione ambientale ed ecologica. Questo terzo terreno, strettamente connesso ai primi due, assume i presidi territoriali del welfare come hub territoriali sui quali costruire veri e propri “contratti locali” (per esempio, contratti di scuola, sul modello dei contratti di quartiere) che coinvolgano istituzioni, società civile organizzata, cittadinanza attiva, imprese e che siano in grado di ripensare spazi e pratiche.

Infine, dobbiamo immaginare anche effetti più profondi e pervasivi, che riguardano le pratiche quotidiane nello spazio, le forme di vita, i modelli di interazione localizzata, l’esercizio dell’affettività. Si tratta del tema più incerto, più inquietante. Ma si tratta di un tema intorno al quale, ancora una volta, lo spazio conta. E con esso l’architettura e l’urbanistica.

Come fronteggeremo questi mutamenti di immaginario, che sicuramente la pandemia indurrà in larghi strati della popolazione? Quanto peseranno nelle dinamiche già in atto di auto-immunizzazione e di separazione (delle popolazioni, degli spazi, e anche dentro le residenze)?

Vedremo, ma intanto una riflessione, teorica e progettuale, potrebbe avviarsi anche intorno a questa dimensione.

Sono soltanto spunti di riflessione molto provvisori, ma spero possano essere utili a indirizzare il nostro fare nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

Milano, 18 marzo 2020