Rappresentazioni della peste

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Claudio Umberto Comi

Data:

14 Aprile 2020

Come ci rappresentano e ci rappresentiamo un’epidemia

In questi giorni di confino coatto, in cui emozioni e privazioni collidono ed il senso civico litiga con gli aneliti di libertà ed in cui ciascuno vive un suo personalissimo travaglio, solo in parte mitigato da forme di “lavoro leggero”, letture evasive a cui seguono riflessioni solinghe e conversazioni virtuali, viene facile interrogarsi come nel passato siano state vissute le fasi epidemiche.

Certo è che i canali di informazione del passato remoto sono pochi. Alcuni di genere storico descrivono puntigliosamente ma non rappresentano, altri letterari o favolistici raccontano ma non documentano ed altri ancora che definirei “artistici” propongono, a secondo dei tempi e degli stili, immagini redatte con caratteri didattici, drammatici o trionfalistici. Nel passato più prossimo invece la fotografia ha preso il posto della figurazione pittorica e ci ha raccontato come sa, o forse come pareva opportuno, i fatti e gli eventi.

In questa epidemia presente, invece i diversi “media” hanno ormai consacrato un’iconografia del dolore che si crogiola tra camion militari al tramonto e file di bare allineate; infermiere sfinite, malate, e poi risanate o reparti ospedalieri “in flou”, dove una umanità dolente vive il suo dramma in totale isolamento; quanta angosciosa raffigurazione pare accompagnare questa “peste postmoderna” e quali ne saranno mai le ragioni?

Viene quindi naturale provare a far correre la memoria verso l’iconografia più antica. Si pensi quindi al “Trionfo della morte” di Pieter Bruegel il Vecchio nel quale defunti schierati come milizie, monatti e becchini irrompono nella quotidianità della vita, creando scompiglio e, per l’appunto, morte. Immaginandoci gli spettatori del tempo, laboriosi mercanti ed oculati banchieri in un paese ispirato da logiche e pratiche calviniste e luterane ed un senso pragmatico forse innato, che oggi ci osteggia. Viene dunque facile pensare che la funzione primaria del dipinto fosse adeguatamente raggiunta anche a prezzo di rinunciare a drammatizzazioni estreme, e le numerose copie lo derubricano quasi, ad un “albo a fumetti”.

E come può la mente non correre all’affresco raffigurante il “Trionfo della Morte di palazzo Abatellis” a Palermo antecedente al fiammingo di circa un secolo, in cui appare con palese evidenza una similitudine nella raffigurazione delle morte a cavallo che irrompe al galoppo nella scena, armata di tutto punto con spada, falce ed arco, scoccando i suoi dardi verso un gruppo di censo più elevato mentre il gruppo di popolani sulla sinistra, quasi disdegnati dalla morte, osservano gli accadimenti con sguardi che potremmo definire tra lo sconcertato ed il compiaciuto, forse prodromi di partecipanti a banchetti pasquali sui tetti dei condomini.

Vi sono poi altri “trionfi della Morte” tra i quali spicca l’affresco sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone nel quale vediamo la morte incoronata ed ammantata da un prezioso mantello che si erge su di un sepolcro ed è lì coadiuvata da due “scheletrini” arcieri che mirano ad una processione di potenti. Anche in questo caso pare trasparire una strana coincidenza, l’affresco di Clusone località ed ultima propaggine di quella Valle Seriana martoriata dall’epidemia di Covid19 basti pensare ai numeri di Nembro e al suo tributo di morti, per non dimenticare poi la valle della Tuscia in cui a Tarquinia vi è l’affresco del “caca anime”, località che con Fondi sono nel centro Italia le zone a maggior diffusione di contagi.

Probabilmente parlando nello specifico di malattie pestilenziali l’icona più nota è quella apparsa in un trattato scientifico del 1720 in cui vediamo per la prima volta il cosiddetto “medico della peste” quella figura a noi ben più nota in tanti mascheramenti, anche cinematografici di feste in maschera e carnevali veneziani. Dunque la tragedia attraverso la scienza si sdogana e diviene folklore; sarà mai che qualcosa di simile possa accadere anche oggi? a dire il vero ne avremmo proprio bisogno perché senza sconfinare nella psicologia, se da un lato rappresentazioni e raffigurazioni condivise ci informano, spaventano e solo a volte rassicurano, assai spesso le autorappresentazioni ci angosciano. In tal senso certo non aiuta il cosiddetto “lockdown”, misura certamente opportuna ma in molti casi escludente, in particolar modo proprio per quelle fasce della popolazione più anziane per le quali una coda quotidiana al supermercato diviene l’unica forma di svago e mitigazione della solitudine.

Vi sarebbero poi molte altre raffigurazioni: la peste di San Carlo è rappresentata nei “quadroni del Duomo” in cui un esile vescovo a cavallo fende benedicente la folla dolente degli appestati “alle capanne”, ricoveri di fortuna ai margini della città in cui venivano confinati i malati. Un luogo che richiama alla mente l’idea espressa da Michel Focault per effetto della quale, la peste in città o divide od esclude. Chiediamoci quindi quanta assonanza o dissonanza vi si possa intravedere con l’immagine a dir poco dirompente di un uomo solo e bagnato in una piazza San Pietro deserta. Lo stesso uomo che claudicante si incamminava in una Roma sempre deserta verso il “crocefisso miracoloso”.  Abbiamo poi l’imperiale visione di un Napoleone in alta uniforme che con uno sguardo tra l’inespressivo e il catatonico avvicina la mano quasi volesse toccare un bubbone pestilenziale di un aitante militare che ha servito lo stato; ed ancora non si può tralasciare le immagini che oggi circolano della “Spagnola”. Di essa già vediamo infermiere e volontari con le mascherine, ospedali di fortuna lindi ed ordinati ed altri in cui l’unica fortuna pare il potervici entrare, sembra dunque che la storia si ripeta beffarda e ci interroghi sul come sia potuto accadere e sul come abbiamo reagito.

Più vicini a noi nel tempo e nel sentire si appalesano i drammi di un Edward Munch emaciato e convalescente proprio dopo la “febbre spagnola”, da cui si salvò forse per ripensare ancora a quell’ultimo “urlo” del 1910 in cui come ci dice la rete vediamo: “la condizione esistenziale dell’uomo moderno, afflitto dalla solitudine, dall’incomunicabilità e dall’angoscia” e in cui sullo sfondo  si diluiscono e languono i colori con cui oggi i bambini disegnano lenzuola arcobaleno da appendere ai balconi con il benefico auspicio che “#andràtuttobene” e forse dobbiamo tutti intensamente sperare che sia proprio così.

Per tali ragioni in questi giorni ho pensato a lungo ad un’immagine che incarnasse appieno le infinite sfumature della questione odierna: scienza e superstizione, malattia e dolore, paure e speranze e l’eterno dilemma tra la vita e la morte ma l’unica che si riproponeva con forza è quella che Egon Schiele dipinse nel 1918 per consacrare la morte della moglie Edith a causa del morbo della “grande Influenza , malattia che di lì a poco si sarebbe portato via anche lui appena ventottenne  e, da quella, provare a riaprire le porte alla speranza, pensando a come invece sia andata a “Mattia” mitologico “paziente1” italiano che dopo tanto lottare tra la vita e la morte attaccato ad un respiratore, ha potuto veder nascere sua figlia (1); personaggi ed evento questo di cui ancor oggi non abbiamo immagini. Resta pero il fatto che sia quasi una rivincita della vita sulla morte, che poi è quello che tutti intimamente speriamo, a livello personale e sociale anche in questi giorni.

(1) Giulia è nata il 7 aprile all’ospedale Buzzi di Milano.