Musei locali e fragilità

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Elena Montanari

Data:

16 Aprile 2020

L’espressione “musei locali” raccoglie diversi tipi di istituzione museale – ecomusei, musei diffusi, piccoli musei civici ed etno-antropologici, e strutture a servizio di luoghi di memoria o di interesse culturale – accomunate dallo speciale radicamento a un luogo, da una ridotta dimensione gestionale e da una missione orientata alla valorizzazione dei patrimoni e delle identità territoriali. In Italia queste istituzioni rappresentano una percentuale cospicua del settore museale (di cui costituiscono una porzione ampiamente superiore alla metà, secondo i risultati dell’indagine ISTAT “L’Italia dei musei 2018”) e, per il loro carattere diffuso, sono una componente peculiare del sistema culturale nazionale.

Benchè svolgano un ruolo importante – come presidio e strumento di accesso all’estesa ricchezza di beni, memorie e identità –, da tempo queste strutture vivono una condizione di particolare difficoltà, dovuta all’insufficienza di risorse e ai conseguenti limiti operativi, al progressivo depauperamento delle dotazioni di personale (tanto che diverse strutture rimangono minimamente fruibili solo grazie al coinvolgimento attivo dell’associazionismo locale) e a vari ostacoli normativi. Nel corso degli ultimi vent’anni, molti musei locali hanno subito una significativa revisione gestionale (che in alcuni casi ha assimilato la direzione amministrativa e quella scientifica) e una forte riduzione dei servizi accessori, che li hanno spesso ridotti a meri “depositi” e talvolta ne hanno provocato la chiusura.

È facile immaginare che l’epidemia in corso acuirà queste difficoltà. Nella situazione presente tutti i musei sono vulnerabili e, come già annunciano enti internazionali quali ICOM e American Alliance of Museums, è possibile che molti non saranno in grado di riaprire. I piccoli musei locali, già gravemente sottofinanziati, sono forse quelli più esposti al rischio di “congelamento” o scomparsa. Le avvisaglie di questo rischio si possono leggere per esempio nella limitata reattività della maggior parte di queste strutture durante l’emergenza – in particolare nella gestione dei progetti digitali. Come in altri settori, oggi questi rappresentano il principale campo d’azione (e strumento di “resistenza”) per le istituzioni culturali, ed è plausibile immaginare che continueranno a svolgere una funzione importante nell’immediato futuro. Questa ipotesi implica il potenziamento del ruolo delle ICT e lo sviluppo di nuovi programmi (auspicabilmente basati sull’interazione tra onsite e online) che potrebbero gradualmente avviare un significativo aggiornamento delle pratiche di comunicazione, esposizione e ricerca museale. Alle soglie di quello che sembra preannunciarsi come il “quinto tempo” dei musei – che succede al “quarto tempo” che Luca Basso Peressut aveva segnalato all’inizio del nuovo millennio, facendo seguito al “terzo tempo” annunciato da Franco Albini nel secondo dopoguerra –, molte strutture locali non sembrano pronte a superare questo passaggio evolutivo. Queste istituzioni spesso registrano un forte ritardo nell’implementazione di pratiche e strumenti digitali, non solo nella catalogazione del proprio patrimonio, ma anche nell’attivazione di nuovi canali di comunicazione – considerando che, secondo i dati ISTAT, poco più della metà dei musei italiani ha un account sui più importanti social media (53,4%) e un sito web dedicato (51,1%). Anche se questa emergenza potrebbe aver provocato una variazione di questi dati (perché in queste settimane alcune strutture potrebbero avere attivato nuovi strumenti, che stanno gestendo con un’ammirevole buona volontà e una certa dose di improvvisazione), i musei locali sembrano soffrire di una sorta di digital divide rispetto alle grandi istituzioni, generato dalle limitate risorse per l’acquisto, la manutenzione e la gestione di nuove tecnologie dell’informazione, ma anche dalle difficoltà nell’acquisizione delle competenze necessarie per svolgere questi progetti in modo professionale, e nello sviluppo di programmi speciali per alcuni tipi di patrimonio diffuso. Certamente questo limite non è il principale problema delle piccole istituzioni, tuttavia supportarle nel potenziare la propria presenza nel mondo digitale non solo consentirebbe a molte strutture che ora sono “mute” di ritrovare una voce, ma potrebbe anche contribuire a riconfigurare il concetto di “locale”. Le nuove tecnologie infatti hanno la capacità di proiettare il lavoro culturale in una dimensione globale, in cui certe distanze sono annullate, e ciò che era remoto o inaccessibile può essere integrato in una rete aperta e diffusa.

Quella dell’aggregazione dei piccoli musei in più o meno ampi sistemi, poli e circuiti, organizzati da logiche infrastrutturali di natura geografica e/o tematica, era già da tempo stata individuata come strategia d’intervento preferenziale per queste istituzioni. Le ipotesi che si possono fare nella situazione attuale confermano la validità di questa opzione e, sfruttando le possibilità offerte dai mezzi digitali, ne ampliano la scala e la portata. La costruzione di sinergie tra musei e tra questi ed altre istituzioni culturali (biblioteche, archivi, scuole, istituti di ricerca) è infatti una direzione di cui è facile immaginare l’utilità nel futuro che stiamo cercando di ri-progettare. E in questo scenario, prevedendo che nei prossimi mesi la mobilità rimarrà limitata, i musei locali potrebbero essere investiti di un nuovo ruolo: la loro prossimità ai territori e alle comunità di riferimento potrebbe fornire le condizioni per trasformali nei punti di accesso a un sistema museale integrato e multi-scalare, da costruire attraverso nuove relazioni e collaborazioni tra diversi enti, programmi, discipline e geografie.

L’ipotesi che questa emergenza produca una riconfigurazione del ruolo del tessuto locale in termini culturali, sociali ed economici potrebbe avviare un ripensamento del valore e delle funzioni delle istituzioni a servizio del territorio. Sebbene in questo momento tale missione non sia prioritaria, è importante iniziare subito una progettazione strategica che tenga in considerazione queste potenzialità – che, da soli, i piccoli musei non possono mettere a frutto – e che immagini ad ampia scala il contributo costruttivo dell’istituzione museale in questo momento storico. In fondo, come riportava il calendario degli eventi che il Museo Guatelli avrebbe dovuto inaugurare in questo periodo,a cosa serve un museo, se non ad immaginare un futuro?