Epidemie ai tempi del web

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Juno Tani

Data:

16 Aprile 2020

Nei primi giorni (quelli di fine febbraio con Mattia “paziente 1” e Cologno “zona rossa”, per intenderci) sospesi tra “infodemia [1]” ed una pandemia incombente (che a volte pareva più che temuta quasi auspicata [2]) avevo coniato il termine, a dire il vero anche per molti amici criptico, di “pavordemia” (epidemia di paura). Al di là del gioco di parole, un tratto caratterizzante di questa epidemia è proprio la paura, sia questa innata od indotta. Paura della malattia, paura della solitudine e, paura per il futuro individuale e sociale; oltre alle comprensibili incertezze per la perdita delle sicurezze su cui si fonda il “quieto vivere” di ciascuno di noi. La paura però, si sa, è connaturata con l’uomo e senza scomodare le mimiche facciali di Darwin, la psicologia moderna [3] ci dice che sostanzialmente sia un’emozione primaria di difesa ed in quanto tale governata dall’istinto. La natura istintiva delle reazioni collide quindi con una risposta pacata e razionale che è nei fatti l’unica risposta opportuna per metabolizzare una situazione di tipo naturale come è questa epidemia, e, pertanto con la paura la situazione diviene difficilmente governabile con i metodi usuali della politica e della “ragion di stato”. Ciò nonostante per altri fenomeni naturali quali, terremoti, esondazioni e catastrofi assortite, vige una paura latente mitigata da fatalismo ed irresponsabilità. Paura che ha qualcosa di simile a quella per una malattia che, con intensità diverse tra soggetto e soggetto, colpisce e spaventa anche in assenza di sintomi significativi che oggi sappiamo dovremmo definire “paucisintomatici”. Un modo forse adattabile anche alla spontanea reazione all’attuale paura se non fosse che accadimenti di difficile diagnosi l’hanno invece resa grave e virale. Di fronte alle catastrofi, in genere, si sviluppa una paura per così dire circoscritta nello spazio e nel tempo, un timore che dopo l’emergenza scema e si approssima ad una stanca e sgradita abitudine con la quale convivere con una evidente analogia con “picchi” e “plateau” [4]. Di altri accadimenti invece, quali perdite, allontanamenti o infedeltà, viviamo una paura latente ma quasi mai devastante, fatti salvi alcuni casi come nell’ipocondria in cui la paura stessa diviene patologia. Nel caso dell’epidemia di Covid19 invece, assistiamo ad una paura manifesta ed in parte totalmente irrazionale, forse alimentata da ridondanti messaggi mediatici tesi ad esasperarne la portata. Un aspetto questo in parte confermato dal dato di fatto di quei “grandi numeri [5]” di cui sentiamo continuamente parlare, cifre che però si mitigano qualora divengano relative. Si pensi ad esempio al numero dei morti, sicuramente importante, come ci apparirebbe se rapportato alle percentuali annuali di decessi a scala nazionale per altre cause o sul numero di abitanti delle diverse zone geografiche in cui avvengono. Inoltre sempre sui morti, che ahinoi tali restano e poco importa che essi siano “con” o “per” coronavirus e giovani o vecchi, si è costruita una panoplia iconografica del dolore. Lunghe file di bare si incamminano su camion militari con sullo sfondo la “città alta” al tramonto, mentre bancali di urne cinerarie ritornano a Wuhan giusto in tempo per la festa del Qingming [6]. Ma la paura del virus non si conchiude solo attorno alla morte, postula un lungo corollario di potenziali pericoli: virus volanti sul particolato pronti a ghermirti ad ogni tuo respiro, ospedali strapieni incapaci di accogliere e sanare, innocenti fanciulli trasformati in possibili untori agguattati nell’ombra, presi a svolgere il proprio “fagottino dell’unto” e perciò da confinare e, dulcis in fundo, solitudine e dolore in uno stato d’incoscienza disteso prono in un letto d’ospedale circondato da marziani. Un insieme di fattori da togliere il fiato a chiunque, altro tópos questo della malattia: “la fame d’aria”. E di aria ne abbiamo oramai fame un po’ tutti, rinchiusi tra le mura domestiche da giorni con l’unico svago concesso di una lunga e mesta coda al supermercato. L’aspetto più evidente di questa epifania epidemica è la condizione di limitazione dei contatti e segregazione domestica in cui per molti, ma non tutti [7], la rete web diviene canale preferenziale per lo scambio di informazioni.  Però basta aprire una finestra sul web alla ricerca di conforto e rassicurazioni che di nuovo la paura ti assale e l’angoscia dilaga, solo appena mitigata da pagine, siti o gruppi di discussione che la vogliono blandire con le ragioni della scienza; dunque assai interessante diventa in un web ammorbato il già complesso rapporto tra scienza e paura. Nel quale, dicendola con Paolo Blasi, si osserva “una convinzione molto diffusa che ciò che è naturale è buono e ciò che è artificiale è cattivo, convinzione che è spesso causa di sospetto se non di ripulsa di ciò che la scienza può produrre.” Anche se questa volta la partita pare giocata a ruoli invertiti, con una natura matrigna cattiva che ci manda il virus, cosa che pare acclarata anche se tra molte polemiche, e la scienza eroico baluardo erto in nostra difesa sino all’estremo sacrificio e sin che durerà tale convinzione; in realtà questa visione pare già scemata vista la necessità di legiferare uno “scudo” per l’operato dei sanitari sul campo. Ad un lucido pensiero fondato sui criteri della razionalità si antepone quindi “il razionale [8]” parola top del momento che soppianta in un sol colpo: resilienza, rarefazione e droplet. Una razionalità solo conclamata e dunque divenuta in un sol colpo feticcio e simulacro di un pensiero positivo e, si badi bene, positivo ma non positivista [9]. Grazie al “razionale” ogni ipotesi di cura, ogni sobbalzo negli andamenti “logistici [10]” dei contagi, ogni variabile nell’ormai palese universo virologico è sdoganata da epidemiologi da tastiera e provocatori prezzolati che “chattano” appellandosi entrambi, ovviamente, al “razionale”. Il bello della condivisione nel web della paura indotta dall’epidemia sta nel fatto che a dare risposte e conforto vi sia un profilo il più delle volte a dir poco improbabile. Condividere dunque con un alias, spesso mal camuffato, malintese nozioni sanitarie o interpretazioni estemporanee di studi o trial clinici ci fa credere di aver un controllo, tutto da dimostrare anche a noi stessi, della situazione. In questa apparente compagnia passano le giornate e l’angoscia si stempera, superando le barriere dello spazio: Aosta è idealmente vicino a Catania, e del tempo: anziani e giovani si trovano accomunati in una esperienza comune ma in modi diversi ma ciò dallo schermo a fatica traspare. Però al contempo la rete diviene quasi un “grande microscopio” con cui analizzare l’evolversi degli eventi e delle combinazioni che questi producono sia sul corpo sano che malato della società. L’epidemia vista dal web, anche alla luce dei comportamenti sociali che questo propone, ci presenta aspetti altrimenti impercettibili come il bisogno di certezze anche a prezzo di pesanti rinunce alle proprie libertà e, l’incapacità di sviluppare una visione panottica dei fenomeni, tutti concentrati sui nostri interessi o passioni. Si pensi a tale proposito ai rimedi naturali o all’inquinamento in cui alcuni vedono panacea di questo ed ogni altro male o causa di quasi tutte le disgrazie che affliggono la specie umana in questa epoca. Siamo dunque portati a leggere gli eventi anteponendo tali miopie alla corretta visione della realtà dei fatti ed anche se ciò fosse in linea di principio plausibile, pare evidente che la natura e l’evoluzione del virus con le sue inevitabili conseguenze segue leggi imperscrutabili che potranno essere definite e combattute solo con una soluzione razionale ed olistica costruita nel tempo. Sempre nella rete si incontra inoltre una incredibile commedia umana, di boccaccesca memoria [11]. Soggetti curiosi su cui primeggia per numero di post e  re-post “l’impanicat* senziente”, giovane di mezza età spesso in carriera che teme il male presente ed attende al futuro; “l* scientist*”, che idolatra la scienza in attesa di una sinecura; “un* giovane studios*” che compulsa dati producendo previsioni sempre più performanti  sulle quali battibecca con due categorie assai diffuse: “me l’ha detto mio cugino” colui che asserisce certezze che nemmeno comprende e, “la casalinga di Bagnone“ che chiede ma non vuole sapere. A questa galleria del generone web si aggiungono personaggi politicamente orientati e perciò, a loro dire, informati per antonomasia e consapevoli a prescindere: “meme militante”, “la staffetta del contagio”; “prima il noi” “mascherina rossa” ed “il devot* del vairus” oltre ad una svariata genia di para-scienziati con l’aurea degli intellettuali da parafarmacia a cui fanno il controcanto i faziosi da “bar sport”. Cosa chiedere di più per ovviare al tedio di un mezzo pomeriggio forzatamente ozioso? È dunque giunto il momento di formulare due possibili prospettive per la ricerca ed una conclusione seppur provvisoria. La prima dovrà considerare le fragilità umane (analiticamente e nel loro insieme) quale vettore di un potenziale contagio dell’irrazionalità insidioso agente, questa, nelle scelte di merito e di metodo per le soluzioni delle crisi (quali che esse siano) con le ovvie conseguenze sulle scelte di politica sociale ed azione locale. L’altra invece traguarda la natura stessa della rete che si dimostra ogni giorno di più un potente deflettore della realtà dei fatti verso meta narrazioni variamente orientate, seppur “ad personam[12]”. Un aspetto questo connesso ai flussi dell’informazione che attraversa tutti i media, ma nel web assume caratteri di maggior potenza perché diviene assai difficile da cogliere, rilevare ed analizzare nella sua poliedrica mutevolezza; caratteristica questa che abbiamo scoperto parente stretta della proteasi virale pronta ad incattivire il virus ad ogni contatto con gli umani. Per ricondurre questa ultima considerazione ai temi del blog e delle fragilità territoriali invece, nell’analisi condotta con metodi assai approssimativi di osservazione partecipante [13], già emergono fattori di fragilità di gruppo, distorsive convinzioni culturali e politiche, gap dovuti alla localizzazione geografica dei soggetti ed all’età. Al netto delle umane fragilità, si riscontrano al contempo elementi facilmente riconducibili al “digital divide”, alle differenze territoriali, alle affezioni di campanile e, cosa che accomuna un po’ tutti, all’inconsapevolezza che il web è oramai un modo parallelo che vive di dinamiche proprie con caratteristiche ben oltre alle convenienze e convivenze sociali in uso nel mondo reale, forse perché chi vi partecipa si ritiene protetto dall’immaterialità dell’anonimato e della distanza o da un qualche portentoso “antivirus”. Come conclusione provvisoria mi viene invece da dire che seguendo assiduamente l’epidemia su Facebook alla fine si scopre che c’è sempre qualcuno che, sotto sotto ed in un modo o nell’altro, spera che il virus ci ammazzerà tutti! Quasi postmoderno profeta del “memento mori” [14].

 

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[1] Alberto Contri su Avvenire del 4 marzo 2020: “la chiamano infodemia. Il sovraccarico di notizie vere, incerte, false.”

[2] Tra i tanti anche i costanti riferimenti ai cosiddetti “Pandemic bond“, una sorta di “assicurazione al contrario” che la Banca Mondiale ha stipulato con gli investitori nel 2017 scommettendo di fatto su di una possibile pandemia.

[3] Galimberti U., Dizionario di psicologia, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2006

[4] Valori assunti ad indicatore dell’andamento epidemiologico e della sua fase di culmine.

[5] Valori assoluti del numero giornaliero e totale di contagi, ricoveri, pazienti in rianimazione e decessi.

[6] O, “Giorno della Pulizia delle Tombe”, che cade il 5 aprile. Si tratta di una festa nazionale in cui i cinesi ricordano i propri avi, nei luoghi in cui sono morti pulendo le tombe ed offrendo cibo.

[7] Digital divide tecnologico e di connessione, disponibilità di mezzi, abilità nell’uso e, potenza o costanza della rete.

[8] Nella ricerca medica Il “razionale” di uno studio, farmacologico, epidemiologico o clinico prevede l’identificazione di un’ipotesi sperimentale che deve essere verificata (o smentita) dalle strategie che vengono poste in essere.

[9] Un atteggiamento positivista consiglierebbe atteggiamenti cauti e misurati mentre sia assiste, anche da parte della scienza, ad un’affermazione apodittica del reale in opposizione al chimerico della “fake news”

[10] In statistica ed in econometria, il modello “logit”, noto anche come modello logistico o regressione logistica, è un modello di regressione non lineare utilizzato quando la variabile dipendente è di tipo dicotomico. _Wikipedia.

[11] Il Decameron viene detto commedia umana perché Boccaccio, sceglie di raccontare la realtà dell’uomo cosi come essa è, rappresentandolo in commedia con personaggi tratti dalla vita quotidiana di quel tempo, a differenza della dantesca “divina”.

[12] In ragione della “profilazione” degli account che operano i motori di ricerca e molti siti web.

[13] Il più elementare ma non per questo meno efficace metodo di analisi sociologica.

[14] motto dei frati trappisti che nel web può essere abbreviato in “memento homo” o nella forma gergale, “stai all’ occhio”.