Emergenza e riflessi sull’abitare – 1. Sulle condizioni di vita nelle case e nei luoghi pubblici

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Stefano Guidarini

Data:

22 Aprile 2020

L’attuale condizione di permanenza forzata nelle abitazioni sta riempiendo social network, tv e giornali di reazioni a caldo dettate dalla paura, dall’ansia, dalla noia e anche da moti di ribellione e di sfiducia verso chi ci governa, o meglio, verso chi ci dovrebbe governare.

Molti architetti, designer, intellettuali e giornalisti hanno iniziato, a vario titolo tra il serio, l’ironico e l’arrabbiato, a fare analisi e ad avanzare ipotesi su questo improvviso presente.

La nostra posizione di studiosi e di ricercatori ci deve però spingere a tentare alcune prime riflessioni su basi più ponderate, per quanto possibile.

Non è facile perché in questo momento (10 aprile 2020) siamo dentro al problema, e quindi non abbiamo ancora la distanza critica per fare analisi, interpretazioni e proposte su basi tecnico-scientifiche. In ogni caso, alcune considerazioni, dopo oltre un mese, si possono fare.

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Una preoccupazione a livello globale è che le epidemie di massa sembrano essere sempre più ravvicinate nel tempo: tre in questi primi vent’anni del XXI secolo. Come molti hanno già osservato, il loro effetto è peraltro accelerato dalla velocità degli spostamenti, anche se in alcuni casi la diffusione è stata ritardata o fermata dalla pronta reazione medica e dal supporto scientifico (non nel caso attuale). Questa inquietante frequenza è forse il segno che qualcosa si è rotto nel rapporto tra “civiltà” ed ecosistema e, in generale, in molti aspetti relativi allo sfruttamento delle risorse.

La politica, le pubbliche amministrazioni e molte istituzioni stanno deludendo. Presidenti e primi ministri delle nazioni più importanti e molti degli improvvisati di casa nostra sembra abbiano fatto la gara a chi ha fatto gli errori peggiori. Errori che purtroppo stanno costando vite umane. Anche una certa burocrazia si sta dimostrando inefficiente, come nel caso delle tragicomiche famigerate autocertificazioni, un lampante caso di comicità involontaria.

La solidarietà sta dimostrando, ancora una volta, di essere una delle componenti chiave della civiltà. I numerosi esempi, che vanno dall’aiuto all’anziano della porta accanto, ai dolorosi sacrifici dei medici e degli operatori sanitari, alle donazioni di magnati e aziende – solo per citarne alcuni – sono la dimostrazione che qualcosa rimane nella coscienza personale e collettiva.

Non mancano peraltro manifestazioni di egoismo e di mancanza di responsabilità da parte di molte singole persone, di molte istituzioni e pubbliche amministrazioni.

Come ha osservato Massimo Cacciari: ha senso ancora parlare di Europa? Di solidarietà europea? In tempi di crisi, e soprattutto con il profilarsi minaccioso di una grave crisi economica, egli ci ha fatto notare che se non si recupera appieno in senso di unità europea, se ciascuno pensa per sé, l’intera Europa sarà condannata ad un lento declino sociale, politico ed economico rispetto al resto del mondo.

La città degli uomini sta dimostrando ancora una volta di essere la parte essenziale della civiltà. È una considerazione banale ma in tempi come questi vale la pena ricordarlo. La città di pietra sembra vuota e appare come un fondale astratto che ha l’effetto di un pugno nello stomaco. La forza scioccante del vuoto è testimoniata dal fioccare di foto di famosi spazi pubblici privi di persone, a partire dalla fortissima immagine di Papa Francesco in una Piazza San Pietro drammaticamente deserta.

Ma in realtà le città non sono vuote, gli abitanti ci sono. Se le strade e le piazze appaiono vuote ma per fortuna le case sono piene. Non siamo né Pompei né Ercolano, né una ghost-city. Questo significa che le città stanno vivendo una sorta di letargo, ma sono pronte a risvegliarsi.

È fondamentale confutare – e in molti per fortuna lo stanno già facendo – l’irresponsabile paragone con la guerra. Non siamo in guerra ma stiamo affrontando un’epidemia, che è cosa totalmente diversa. Sostenere che siamo in guerra è una mancanza di rispetto verso chi la guerra in casa ce l’ha davvero, e significa anche dimostrare inaffidabilità e mancanza di lucidità da parte di chi si lancia in questo tipo di proclama.

Per questo motivo è necessario contrastare una serie di derive inquietanti che si stanno profilando all’orizzonte che minano, per paura, per ignoranza o per lucido calcolo i valori della democrazia e della nozione di pubblico. A partire, ovviamente dalla Sanità Pubblica, della quale tutti stanno tragicamente riscoprendo l’importanza.

Sta emergendo una situazione temporanea di vita all’interno delle case all’insegna dei divieti e del controllo. È necessario affermare e ribadire proprio la temporaneità di questa situazione, dettata solamente dall’emergenza sanitaria.

È necessario anche smentire le insistenti derive di crisi dello spazio pubblico, di fine-vita degli spazi della condivisione e dell’incontro tra le persone. C’è già chi sostiene il profilarsi di una nuova a-socialità dettata dalla paura, come una sorta di “disurbanesimo” contemporaneo.

Anche se il lavoro da casa, il tele-lavoro, lo Small-Office Home-Office (SOHO) sono da molto tempo nell’agenda di studio di architetti e pianificatori di tutto il mondo, la condizione di non poter incontrare le persone è una costrizione temporanea, che forse lascerà qualcosa di positivo e qualcos’altro di meno positivo, ma non è la condizione futura. La vita on-line non sostituisce la vita reale, anche se in alcuni casi può contribuire a migliorarla. La storia stessa ce lo insegna.

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Milano Cso San Gottardo -2019 foto Marco Introini
Milano Cso San Gottardo -2019 foto Marco Introini