Emergenza e riflessi sull’abitare – 2. Sull’abitare condiviso

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Stefano Guidarini

Data:

23 Aprile 2020

Sul versante dell’abitare si stanno già delineando alcune posizioni – è bene sottolineare del tutto estranee al nostro dipartimento – che “prevedono” per il futuro una crisi dello spazio pubblico e una crisi degli spazi di relazione della residenza, sia stabile che temporanea (per anziani, studenti, lavoratori, ecc.).

I cosiddetti spazi intermedi della residenza, cioè quegli spazi-filtro che si sviluppano tra l’uscio di casa e il marciapiede che spesso determinano – più dell’alloggio stesso – la vera qualità dell’abitare, sembrano essere, secondo opinioni che non possiamo condividere, in profonda crisi. Qualcuno ha perfino ipotizzato forme di residenza che si avvicinano a quella degli “hotelf1” di origine francese, nei quali sono del tutto “scongiurate” le relazioni interpersonali.

Al contrario, quello che sta emergendo dalle cronache d’attualità è proprio l’importanza dell’abitare collaborativo, basato sul senso di solidarietà e di responsabilità delle persone. L’isolamento e l’egoismo condominiale, al di là dell’emergenza e della riduzione dei contatti fisici, non sono un vantaggio per nessuno.

All’interno delle diverse forme di abitare collaborativo (flat-sharing; co-living; case-comunità /co-housing; comunità di vicinato), insieme ai temi quanto mai attuali della residenza-lavoro, i margini di ricerca sono ampi e quanto mai attuali.

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Alla scala del singolo appartamento si può osservare che molte abitazioni contemporanee si stanno dimostrando inadeguate e prive di privacy. Vale la pena di notare che questo riguarda soprattutto le case del dopoguerra e, in particolare, quelle degli ultimi 20 anni, progettate secondo un principio di specializzazione degli spazi ancora di origine funzionalista e con superfici minime rispetto a quelle delle generazioni precedenti, con camere di 9- 14 mq (con i nuovi regolamenti anche 8-12 mq) e i soggiorni poco di più.

Fino al periodo tra le due guerre le case (comprese le case popolari IACP) avevano camere da letto e stanze di 20 mq e oltre. Inoltre, in molti casi la distribuzione interna relativamente neutra permetteva anche di modificare l’uso dei locali. Si poteva scegliere di avere il soggiorno in una stanza piuttosto che in un’altra.

La specializzazione del XX secolo, con l’invenzione funzionalista della zona-notte e zona-giorno, ha cancellato questa preziosa polivalenza dei locali dell’abitazione. In quelle case si poteva anche lavorare, molte di esse oggi funzionano come studi professionali, uffici amministrativi, scuole, anche come spazi commerciali.

Queste non sono osservazioni nostalgiche, non vuol dire che si debba tornare a progettare le case come nel periodo tra le due guerre, ma occorre recuperare con altre forme quella polivalenza e flessibilità degli spazi che erano la qualità principale di quelle case. Anche perché oggi no possiamo tornare alle dimensioni dei locali di quel periodo, perché le condizioni economiche non lo permettono.

Oggi la riduzione delle superfici è dettata dalle regole del mercato: ti offro un quadrilocale dove prima ci stava solo un trilocale, a parità di superficie. Se il progettista è bravo può anche riuscirci, ma nella maggior parte dei casi no. Il risultato è che le camere e i soggiorni, anche nelle case a libero mercato in zone prestigiose, hanno locali minimi e super-specializzati dove puoi fare una cosa sola, dormire o mangiare o poco altro. Sono inadatte ad affrontare nuove situazioni che non dipendono solo dall’attuale emergenza sanitaria, ma che sono una delle necessità ormai impellenti dell’abitare contemporaneo.

Sottolineo quindi l’importanza di sviluppare il tema progettuale della polivalenza degli spazi dell’abitazione.

La polivalenza indica la capacità di uno spazio di adattarsi a usi diversi senza modifiche fisiche della forma o della distribuzione, mentre la flessibilità indica la capacità di uno spazio di essere modificato nel tempo per rispondere a nuove necessità. La polivalenza parte dalle persone e dall’uso che le persone fanno degli spazi, la flessibilità comporta invece un adattamento della forma, e quindi modifiche costose.

Un altro versante di ricerca è quello normativo[1]. Oggi i regolamenti italiani sono improntati per la maggior parte su un modello di casa funzionalista che privilegia la specializzazione degli spazi. Un altro versante di ricerca dovrebbe quindi affrontare proprio la revisione del corpus normativo sulla casa, al fine di permettere tipi di distribuzione e forme di organizzazione spaziale che consentano una più ampia polivalenza degli spazi. In molti esempi stranieri (ad esempio Svizzera, Austria e Francia), la distribuzione interna degli alloggi è quasi elementare e molto più flessibile rispetto a quella di una casa italiana.

L’idea potrebbe allora essere quella di proporre interventi-pilota su edifici esistenti e per edifici nuovi di sostituzione edilizia. Progetti per edifici “fuori-norma”, o meglio edifici sperimentali (sul modello del Weissenhof, dell’Hansa-Viertel o del QT8-Triennale) per sperimentare un rinnovamento degli spazi dell’abitazione.

[1] Il tema è oggetto di ricerca ex-FARB dal titolo “Si può fare? L’abitare contemporaneo tra norme, pratiche e progetto”, da parte del gruppo di lavoro composto da Paola Savoldi (coordinatore), Massimo Bricocoli, Stefano Guidarini, Gennaro Postiglione, Stefania Sabatinelli, con Marco Peverini, Federica Rotondo.

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Lesmo - Centro Lega del Filo d'Oro - Guidarini & Salvadeo 2005 Foto Marco Introini
Lesmo - Centro Lega del Filo d'Oro - Guidarini & Salvadeo 2005 Foto Marco Introini