Alcune riflessioni sull’architettura di interni ai tempi del COVID_19

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Pierluigi Salvadeo

Data:

5 Aprile 2020

COVID_19, qui finisce il Novecento!
Non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca!

Da tempo, parecchio prima del Coronavirus, andavamo dicendo che la tecnologia, soprattutto quella informatica, stava cambiando la nostra maniera di essere nel mondo; che il viaggiare era ormai diventato una delle normali condizioni dell’abitare; che potevamo vivere e lavorare in ogni luogo e in ogni spazio perché tanto eravamo sempre connessi; che il computer ci metteva in relazione gli uni con gli altri ovunque ci trovassimo; che virtualmente potevamo essere in un posto e in un altro nello stesso momento temporale; che le città erano ormai diventate luoghi attraversati spazialmente da diversi tipi di mobilità: dalle persone, alle cose, alle informazioni e altro ancora.

 

Già prima del 2020 avevamo iniziato a vivere in una realtà composita senza gerarchie predominanti e attraversata da una moltitudine di stili e forme diverse, di usi, di luoghi, di ambienti, di tecnologie, di servizi, di informazioni, di linguaggi, di immagini, di scene, di marchi, di pubblicità, di economia…, convincendoci che infondo “la città è ovunque e in ogni cosa” (A. Amin; N. Thtift, Cities. Reimagining the Urban, Cambridge, Polity Press, 2001): negli esterni come negli interni, nelle azioni come nelle cose e paradossalmente nell’urbano come nel non urbano.

 

Ed è così, che lo spazio abitato, ovunque esso sia, ha cessato di essere semplicemente uno spazio architettonico, per diventare una struttura d’uso complessa, dove le funzioni abitative, quelle produttive, quelle di servizio, ecc. si distribuiscono liberamente su una specie di piano uniforme e continuo. Una nuova domesticità “invasa” e “invasiva” allo stesso tempo, caratterizza ormai gli spazi delle nostre vite (K. Matsuda, Domesti/City – The dislocated home in augmented space. London. (diploma thesis, 2010 – supervisor: Vesna Petresin Robert). Invasa, perché la vita che normalmente si svolge fuori dalla casa, nella città come nel territorio, è ormai entrata a far parte degli spazi più intimi dell’abitazione. Invasiva perché la condizione abitativa che ognuno di noi ha sempre gelosamente custodito nell’intimità della propria casa, è ormai emigrata all’esterno, invadendo ogni spazio e ogni luogo. Le nostre azioni non sono altro che una continua sovrapposizione di situazioni di diversa natura, che hanno luogo, indifferentemente, in un tutto abitato, costituito da spazi molto diversi uno dall’altro, dentro o fuori dall’ambito domestico.

 

Si tratta di una ridistribuzione orizzontale degli usi che tuttavia non credo abbia, almeno fino ad ora, rappresento una forma di appiattimento del vivere, al contrario, si sono col passare del tempo sempre più raffinati i modi in cui eseguiamo le nostre azioni, anche quelle più semplici e quotidiane, che con facilità e stile possono essere svolte in ogni luogo possibile. È un sovvertimento del modo di abitare, sempre più dilatato e aperto, sempre più eterogeneo e inclusivo, che ha cambiato i nostri gesti, che ha cambiato la sequenza delle nostre azioni quotidiane, che ha cambiato il modo di relazionarsi alle cose e alle persone, che ha cambiato la qualità dello spazio nel quale viviamo o vorremmo vivere, che ha cambiato la nostra idea di esperienza. Complice di questo è la tecnologia, ma non vi è dubbio che la vera rivoluzione, ormai, è di tipo comportamentale e più legata alla sfera culturale e personale degli individui. Come sostiene Alessandro Baricco (A. Baricco, The game, Torino, Einaudi, 2018) l’impressione che la nuova mentalità con la quale affrontiamo le nostre azioni sia il frutto di una rivoluzione tecnologica e informatica, si è ormai dissolta, e ora prevale la sensazione di esserci sporti oltre confine e di aver iniziato a colonizzare zone di noi stessi che non avevamo mai esplorato. In breve, per Baricco, l’impressione è quella di avere acquisito una diversa attitudine culturale e civile. È un’attitudine che segna inevitabilmente un cambio d’epoca, e le posture a cui il Coronavirus oggi ci costringe, ne sanciscono definitivamente le pratiche, le quali, lo sappiamo benissimo, anche dopo l’emergenza, rimarranno per chi sa quanto tempo normali pratiche della nostra vita quotidiana.

 

Sembra che una nuova condizione di internità abbia varcato i confini specifici della disciplina degli interni, costringendola a farsi carico di nuove responsabilità nei confronti della città, e capovolgendo le relazioni comunemente riconosciute tra edificio e città, tra pubblico e privato, tra interno ed esterno. Lo spazio abitato si descrive oggi soprattutto con le azioni che in esso avvengono, che non necessariamente hanno nell’architettura il proprio principale scenario di riferimento. È uno spazio che si erode a favore di nuovi territori di conquista, spesso difficilmente descrivibili con i codici formali classici dell’architettura, e non perfettamente comprensibili o universalmente condivisi. Cambia la sequenza logica con la quale i differenti spazi abitati si posizionano uno rispetto all’altro; tutto è rimescolato, e ogni azione sfuma in quella precedente o in quella successiva. Nuove connessioni di significato cambiano profondamente il modo in cui guardiamo e classifichiamo ogni ambiente. Ogni nostra azione quotidiana presuppone uno spazio o uno sfondo di fronte al quale accadere, e tante azioni presuppongono tanti piccoli e anche minuscoli progetti personali per i quali ognuno di noi ne è diventato l’indiscusso progettista.

 

È questa una grande occasione di creatività personale e collettiva, e per l’architettura di interni una responsabilità senza precedenti!