Spazi e “specie di spazi” per la cura

I territori fragili e l'epidemia: riflessioni

Autore:

Michela Bassanelli, Imma Forino, Pierluigi Salvadeo

Data:

10 Aprile 2020

La gestione dell’epidemia del Covid-19 in Lombardia ha evidenziato una grande fragilità nell’organizzazione del nostro sistema territoriale e, in sostanza, di una comunità, fatta di persone, servizi, luoghi; in particolare riguardo alla conformazione del sistema sanitario, che per primo ha dovuto affrontare e cercare di contenere il contagio. Qualche settimana fa un gruppo di medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha espresso una riflessione fondamentale in merito: “I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care (un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente, ndt). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care”(>>www.bergamonews.it). È cioè venuto a mancare quel filo che sul territorio lega i servizi dedicati alla cura, alla comunità, mentre dispositivi mobili e cure a domicilio avrebbero potuto evitare spostamenti non necessari, impedendo ulteriori contatti e riducendo i contagi. Dall’altro lato, abbiamo assistito alla nascita di pratiche bottom-up, con la creazione di reti di quartiere, grazie a volontari che cercano di rispondere alle altre esigenze della comunità: alimentare, sociale, legata alle persone fragili, psicologica.

Da una decina di anni stiamo assistendo allo sviluppo di una serie di epidemie (Sars nel 2002; Mers nel 2012) che stanno cambiando i nostri modi di vivere e di relazionarci, condizione che con il nuovo Covid-19 ci toccherà da vicino ancora per molto tempo e che, molto probabilmente, caratterizzerà la nostra società anche in futuro, entrando a fare parte della sua conformazione. Forse stabilmente.

Già la No-stop City (1969) degli Archizoom prefigurava un’architettura come spazio continuo, territorio di scambio e innovazione, in una forma dattiloscritta che ricorda l’immagine stessa del virus. Nel 1972, invece, Gaetano Pesce presentava nell’ambito della mostra “Italy: The New Domestic Landscape” (The Museum of Modern Art, New York) un progetto abitativo sotterraneo rispetto a una pandemia contaminante aria e acqua: un bunker in cui rifugiarsi, che ora appare profetico, e con cui l’architetto e designer immaginava di progettare un’intera città (Project for an Underground City in the Age of Great Contaminations).

Se da un lato l’emergenza virale ha fatto riscoprire l’individualità dell’abitazione, d’altro canto si palesa la necessità di un ripensamento generale della gestione dell’emergenza e, soprattutto, delle forme e pratiche della vita quotidiana verso processi comunitari, continui e diffusi nel territorio. Da ciò nasce l’idea di ripensare all’abitare e alla casa come elemento centrale all’interno di un nuovo e diverso sistema sanitario. La casa, oltre a essere il luogo dell’intimità, del lavoro, dello sport, potrà diventare anche luogo della prima cura in un’ottica di ripensamento di un sistema operativo di spazi e servizi.