Innanzitutto la consapevolezza del fatto che questa emergenza determinerà cambiamenti ed esigenze nuove nella vita di ognuno di noi, ci porta a ridisegnare paradigmi, metodologie e strumenti in relazione ad una ‘deontologia’ dell’architettura che forse per molto tempo è stata TRASCURATA.
Un cambiamento di rotta
Soprattutto per quanto concerne il settore dell’Edilizia residenziale (pubblica e sociale), la nuova visione che si va aprendo a seguito dell’esperienza dell’abitare in questo periodo d’emergenza ‘Covid-19’, sembra spingere verso una riflessione più ampia del quadro insediativo in generale, con specifici ripensamenti verso una nuova visione dello spazio domestico rispetto allo spazio pubblico.
E questo soprattutto per i seguenti fattori:
1.“L’attuale emergenza sta modificando radicalmente esperienza e fruizione delle nostre città
“La città non è soltanto un ente erogatore di servizi. Ma anche – è ancora la Costituzione a spiegarcelo –afferma Giovanni Maria Flick, una “formazione sociale ove si svolge la personalità, si riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili e si richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. In questa dimensione dunque la città ha il ruolo di coltivare le relazioni sociali, affrontando e cercando di risolvere i molteplici problemi della convivenza e gestendo le inevitabili conflittualità
2.Tutti hanno maturato la consapevolezza che questa situazione possa ripetersi in futuro e ognuno cercherà di riorganizzare la vita in funzione di questa eventualità. Inoltre, la forma di ‘segregazione’ indotta dallo stato emergenziale, sta fortemente divaricando la ‘forbice’ sociale a discapito delle classi più disagiate, costrette a condividere diverse ‘vite’ in pochi metri quadri.
3.Un cambiamento di abitudini quotidiane prima impensabile sembra definire i nuovi confini tra spazio pubblico e spazio privato.
Stiamo assistendo ad un radicale ribaltamento del rapporto tra pubblico e privato: Da un lato stiamo sperimentando la privazione dei luoghi pubblici dall’altra ci accorgiamo che li stiamo ‘reinventando’ all’interno delle nostre abitazioni.
Tornano al centro due grandi temi: la città e la casa, ma in un’ottica molto diversa dal passato, che mette in gioco ancora una volta il rapporto dentro/fuori, interno/esterno, pubblico/privato.
Riprendendo le parole di Mario Spada, presidente onorario della Biennale dello spazio pubblico:“Il parco pubblico è sostituito dal terrazzo condominiale, il marciapiede dal balcone dal quale si lanciano canti e messaggi augurali, l’incontro con docenti, compagni di scuola, amici e parenti avviene virtualmente chiusi in casa davanti allo schermo del computer; la passione podistica o ciclistica si esercita in improvvisate palestre casalinghe dotate di cyclette e altre attrezzature di fitness”.
Se lo spazio pubblico infatti, sottratto ad un uso sociale adeguato, sembra ‘concentrarsi’ entrando forzatamente nelle mura domestiche (anche attraverso la sua continua ricostruzione virtuale), lo spazio interno per contro pare ‘dilatarsi’ a coinvolgere azioni sempre più ‘comuni’, legate ad una nuova dimensione condivisa dell’abitare.
Questo processo di simultanea concentrazione/dilatazione dello spazio diviene un parametro importante per misurare la resilienza e la potenzialità di adattamento dei luoghi dell’abitare in periodi di emergenza come il presente, mettendo in luce tutte le criticità delle tradizionali forme abitative a fronte della nuova condizione sociale.
Essendo lo spazio pubblico indispensabile per riconoscersi come parte della comunità, questa sua ‘dissoluzione’ all’interno dello spazio domestico comporta infatti una parallela disgregazione del rapporto interno/esterno, mettendo a dura prova non solo la propria identità, ma anche quella della ‘casa’, che assume forme di ibridazione talora molto evidenti: proprio lo spazio domestico diviene infatti la ‘sede’ di una serie di attività che interferiscono in una successione di azioni spesso sovrapposte o in conflitto.
Alla luce di questo osservatorio, le mancanze più percepite sembrano essere:
-gli spazi interni, soprattutto per le classi meno abbienti
-gli spazi esterni, per tutte le classi sociali
-la velocità del web ( per le classi più disagiate)
-la potenza del wifi (per le classi più disagiate)
-la possibilità di un computer personale per ognuno
-gli spazi comuni protetti
-gli spazi privati garantiti
-la certezza di vivere in un ambiente con l’aria decontaminata nel modo più naturale e senza manutenzione
-l’acculturamento e la socializzazione “da cortile” dell’infanzia
Non rimane che pensare a come portare la natura all’interno degli spazi in cui vive l’umanità.
Negli anni 60 si era sviluppata la sindrome della guerra nucleare e coloro che avevano la possibilità economica (in Svizzera credo fosse di prassi per le nuove costruzioni) si costruivano i bunker sotto terra.
Dopo questa esperienza chiunque vorrebbe ora uno spazio all’aperto, un tetto-orto, un giardino, un prato in cui rifugiarsi protetto dalle aggressioni microbiologiche. (Credo che per riprogettare si debbano individuare le realtà che hanno reso meno drammatica la quarantena e che sono quelle definite dalla natura: boschi, montagna, laghi, mare).
Allo stesso tempo non si può dimenticare che la gran parte delle persone vive in città per bisogno di socialità e che, durante questa emergenza, si sono sviluppate forme di socializzazione condominiale insperate ( gruppi di acquisto su chat, informazioni, collegamenti telematici e webinar sulla gestione dei figli, sui compiti e sulla cucina) di cui bisognerà tener conto per le future progettazioni.
Si pongono domande urgenti:
Per quanto tempo ancora dovremo accettare più costrizioni nei comportamenti sociali e saremo sempre più sotto controllo?
Come fare a risarcire lo spazio pubblico ‘negato’ all’interno dell’unità abitativa quando ancora numerose (forse troppe) famiglie vivono in spazi assai limitati e assenti di qualsiasi dispositivo di connessione?
Ma c’è una domanda più insidiosa: quante di queste abitudini straordinarie a cui siamo costretti diventeranno ordinarie se sono attendibili le previsioni di scienziati e virologi che annunciano un lungo periodo di instabilità segnato da nuove possibili pandemie favorite da un modello di sviluppo insostenibile che confligge con le leggi della natura?
Queste ed altre domande mettono le diverse competenze coinvolte di fronte a nuove responsabilità, non certo risolvibili in tempi brevi. Quello che è certo è che sta nascendo una ‘nuova’ dimensione dell’abitare, sia pubblica che privata, proprio a partire dalla fragilità che stiamo vivendo e questo ci porta ad assumere nuove responsabilità, come architetti,come ingegneri ma anche come cittadini.
“Sicuramente è prevedibile” continua Spada “una significativa limitazione nell’uso degli spazi pubblici per i quali saranno definiti protocolli di comportamento talmente restrittivi che ne potranno snaturare le funzioni e il valore d’uso….. Forse aumenteranno i third places teorizzati del sociologo Ray Oldenburg, spazi privati con alcuni caratteri pubblici, terzi in quanto collocati in un’area intermedia tra l’abitazione e il lavoro”.
L’emergenza ha assolutamente posto in primo piano nuove parole chiave sulle quali bisognerà tornare a ragionare:
DISTANZA
VUOTO
CASA
SPAZIO PUBBLICO
SPAZIO PRIVATO
ADATTABILITA’
LENTEZZA
RELAZIONE
FRAGILITA’
RESILIENZA
A queste parole andrebbe associato un decalogo di ‘best practices’ cui possano corrispondere altrettante ‘best actions’ per il futuro …. Ma sto ancora lavorando in questa direzione
Milano, 18/04/2020
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